Economia

Privatizzazioni, quale ruolo per l’impresa sociale?

Le B Corporation potranno forse rappresentare un modo alternativo per gestire i beni di comunità che richiedono rilevanti investimenti in capitale e sottraendoli dai modelli liberisti e dai processi di privatizzazione tradizionale, ma questo potrebbe essere anche la funzione dell'impresa sociale. L'intervento del presidente di Make a Change

di Andrea Rapaccini

L'introduzione nel sistema italiano delle Benefit corporation ha fatto un deciso passo in avanti nei giorni scorsi con l'approvazione in prima lettura in Senato della legge di Stabilità che contiene "l'emendamento Del Barba".

Il perimetro delle Benefit corporation è quello del profit, ben distinto quindi dal dibattito sugli ibridi e sulla nuova impresa sociale della riforma del Terzo Settore

Le Benefit Corporation sono aziende che vanno oltre la ricerca del mero profitto e considerano il mercato come uno strumento al servizio della collettività. Si tratta di aziende profit che superano il tradizionale approccio CSR “a due tempi” (prima faccio i soldi e poi una parte li ritorno alla comunità sotto forma di beneficienza), ma integrano la responsabilità sociale ed ambientale nel business, non considerandola residuale. Non ci sono due momenti, ma ce n’è uno solo ed è quello con cui l’azienda crea valore economico, sociale ed ambientale, in modo trasparente e certificato da un ente esterno indipendente. Questa integrazione è nei piani industriali, nelle decisioni operative, nei sistemi di reporting (bilancio integrato), ovvero in tutti i momenti chiave della gestione d’impresa.

Da chi e come potranno essere utilizzate le Benefit corporation?

Certamente da tutti quelle imprese ed imprenditori che intendono costruire un vantaggio competitivo creando valore per tutti i soggetti interessati dall’attività di impresa (i cosiddetti stakeholder, clienti, distributori, fornitori, dipendenti, comunità locali,…). Ma più specificatamente potrà essere un modello applicabile alle grandi imprese di interesse nazionale come Poste Italiane, Ferrovie, le reti infrastrutturali dell’energia come Terna a Snam, le utility e le banche popolari che prossimamente si trasformeranno in SpA.

In altre termini le B Corporation potranno forse rappresentare un modo alternativo per gestire i beni di comunità che richiedono rilevanti investimenti in capitale e sottraendoli dai modelli liberisti e dai processi di privatizzazione tradizionale. Oggi infatti esiste un solo modo per fare entrare investitori privati nelle imprese pubbliche ed è quello che prevede il rispetto delle regole di mercato; se per esempio le Ferrovie italiane si privatizzeranno secondo un modello liberista tradizionale, la massimizzazione del ritorno economico per gli investitori porterà a tagliare i rami secchi ed improduttivi perdendo quel valore di “servizio universale” che un’azienda di questa natura dovrebbe avere nella propria missione.

Ed è questo il punto. Idealmente, i beni comuni dovrebbero essere gestiti da soggetti appartenenti al terzo settore, in particolare dalle imprese sociali. Purtroppo però l’attuale normativa che regola l’impresa sociale non è costruita per attrarre investimenti in capitale (il perché lo abbiamo scritto molte volte in queste pagine), e la riforma sull’impresa sociale si è di fatto arenata in Senato.

Mentre la nuova impesa sociale è rimandata a data da definirsi incastrata nell’iter faticoso della Legge delega di Riforma del Terzo Settore, l’emendamento sulle B Corporation viaggia spedito con la legge di stabilità.

Sintomatica in questo senso la parabola grillina. 5 Stelle hanno contrastato la riforma avanzando il sospetto che coloro che promuovono i cambiamenti all’impresa sociale in realtà “vogliono privatizzare il terzo settore”. E mentre riescono nell’intento ostruzionista, non si accorgono che una buona parte del welfare è già stata privatizzata, che le popolari diventano SPA, che le Poste si sono quotate, che le Ferrovie si preparano alla quotazione e che la gestione dell’acqua (che richiede oltre 25 miliardi di capitali di investimento nei prossimi 5 anni) rischia di diventare il nuovo “oro blue” per gli investitori finanziari.

Insomma, mentre i 5 stelle sono molto attenti a non “privatizzare il terzo settore”, sotto il loro naso si stanno privatizzando quei “beni comuni” che erano rimasti ancora sotto il controllo pubblico.

C’è una cosa che faccio personalmente fatica a comprendere di questo Movimento. Si presentano come coloro che intendono combattere le diseguaglianze e al contempo difendono i modelli economici e sociali appartenenti al secolo scorso, quei modelli che con la divisone tra stato e mercato, tra profit e non profit hanno de facto relegato il terzo settore ad un ruolo residuale nella partita dei beni comuni e che hanno prodotto la più grande concentrazione della ricchezza nella storia dell’uomo (dal 2016 per la prima volta la ricchezza dell’1% della popolazione mondiale supererà quella detenuta dall’altro 99%)

Recentemente ho avuto il privilegio di discutere di beni comuni con Stefano Rodotà, che nel recente passato è stato individuato dal Movimento come uno dei punti di riferimento istituzionale. Rodotà definisce i beni comuni come quei beni che hanno a che fare con i diritti fondamentali dell’uomo e che rappresentano una terza categoria che si aggiunge alla tassonomia tradizionale che divide tra beni pubblici e beni privati. “Se il bene è da considerarsi comune”, sostiene Rodotà, “significa che le modalità con cui dovrà essere gestito e manutenuto dovranno garantire l’interesse dei cittadini, interesse che potrebbe non essere garantito né da una gestione pubblica (per mancanza di risorse e capacità) né da una gestione privata tradizionale (per disallineamento di interessi). E’ necessario quindi pensare a modelli nuovi in grado di coinvolgere privati investitori e società civile (gli stessi utenti del bene e servizio) assicurando la sostenibilità economica dell’interesse generale. Un nuovo modello in grado di superare vecchi modi di pensare, basati sullo scontro ideologico tra pubblico e privato”

Non ritengo che Stefano Rodotà possa essere identificato come un paladino del neoliberismo che intende “privatizzare il terzo settore”; è semplicemente una persona che osserva i grandi cambiamenti economici e sociali. Senza pregiudizi.

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Per chi fosse interessato ad approfondire la tematica, il giorno 4 Dicembre, presso l’Oratorio di San Eligio de’ Ferrari in via San Giovanni Decollato, 9 Roma, alle ore 18.00, Johnny Dotti e Andrea Rapaccini discuteranno di “Beni Comuni: tra Stato e Mercato”. Moderatore Stefano Lo Parco Presidente di Dimensione Europea. Ingresso libero . In allegato la locandina

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