Volontariato

Le parole per parlare ai bambini

Come lo spiego ora a mio figlio? Ce lo chiediamo in tanti, davanti alle immagini di Parigi. Come rassicurare un bambino spaventato? Come guidarlo a capire? E come insegnargli nello stesso tempo a non avere paura dei suoi compagni?

di Sara De Carli

Come lo spiego ora a mio figlio? Ce lo chiediamo in tanti, davanti alle immagini di Parigi. Come rassicurare un bambino che ha paura? E come insegnargli nello stesso tempo che domani a scuola non dovrà avere paura dei suoi compagni stranieri?

Astrapi è una rivista per bambini. Già domenica aveva pubblicato uno speciale, scaricabile gratuitamente, per aiutare i genitori a parlare degli attentati di venerdì sera. Due pagine per bambini a partire dai 7 anni, rivolto a genitori, insegnanti ed educatori (in allegato). "Il terrorismo mi fa paura", dice un bambino in una vignetta: "ma la libertà ai terroristi fa ancora più paura", risponde la mamma. «Davanti a avvenimenti così gravi, non sappiamo come reagire. La prima cosa che emerge è la paura. Per non tenerla dentro di sé, si deve parlare. Anche gli adulti sono scioccati, ma hanno capito che non dobbiamo cedere alla paura. Che tu viva a Parigi o altrove, sappi che la tua casa, la tua scuola è al sicuro. Il modo migliore per rispondere la violenza e la follia di questi uomini è quello di continuare a vivere normalmente e difendere le nostre idee nel rispetto dell’altro».

In Italia, lo psicoterapeuta Alberto Pellai ha subito posta la questione in questi termini, pensando ai bambini. «No, io non posso assicurarti che a noi non succederà mai, che la nostra vita resterà indenne da tutto questo», ha scritto. «Possiamo cercare una stella, lassù nel cielo, e immaginarci che le anime di tutte le persone che hanno perso la vita per una strage così violenta e ingiusta ora sono là, dentro quella luce, a guardare il mondo dall’alto. Su quella stella a parlare con chi è morto c’è anche chi quella morte ha provocato. E lì, mentre sono tutti in cerchio, a quelle persone che hanno seminato morte, un papà ora mostra dal cielo il viso di suo figlio che piange sulla terra perché è rimasto solo e ha paura. Chi ha causato quelle lacrime e tutto quel dolore improvvisamente capirà la follia del suo gesto. E lassù sulla sua stella, ne proverà un rimorso così profondo da non riuscire a fare altro». Ma subito ha guardato avanti, sottolineando l’attenzione che dobbiamo avere perché le aule in cui i nostri figli vivono accanto a bambini musulmani continuino ad essere quel luogo primario di convivenza presente e futura: «Quando domani tornerai a scuola e nella tua classe troverai Amina, Abdul, Abed e Asif , continua a cercare nei loro volti lo sguardo e il sorriso di un potenziale fratello e nei loro corpi la voglia di giocare di un amico a cui tirare la palla», scrive ancora Pellai su Famiglia Cristiana. «Se c’è una cosa che la vita mi ha insegnato è che chi è amato, impara ad amare. Mentre chi è odiato, impara ad odiare. E allora, anche se qualcuno ti verrà a dire che adesso c’è bisogno di vendetta, perché nessuno ha il diritto di farci provare così tanto terrore e paura, tu non crederci. Perché nel bisogno di vendetta si nasconde l’odio. E l’odio non porterà mai alla pace. Abbraccia Amina, Abdul, Abed, Asif. Porta un pallone a scuola e andate tutti insieme in cortile a giocare. Fagli assaggiare la tua merenda e di che vuoi assaggiare la loro. Ecco, figlio mio, non ti posso dare la certezza che a te e a me non succederà mai qualcosa di brutto. Ma ti posso assicurare che io e te insieme possiamo rendere questo mondo migliore. Con le nostre parole, i nostri gesti, i nostri sguardi. E la nostra voglia di pace».

Massimo Nunzio Barrella, dirigente dell’istituto Cadorna di Milano, 60% di alunni con cittadinanza non italiana, ha subito scritto questo messaggio alle famiglie: «Chi opera nella scuola, ora più che mai, deve avvertire con drammatica urgenza la necessità di contribuire ad un’educazione che sia all’altezza di un’umanità vera e desiderabile, che si spende per il bene, per il bello, per il giusto, per il rispetto della persona, per la costruzione di ponti e per assicurare uno spazio di incontro reale con chi ha culture, fedi e tradizioni diverse. I bambini, i ragazzi e le loro famiglie devono sapere che noi rifiutiamo con tutto il nostro essere questo attacco all’umanità e con forza vogliamo affermare che non arretreremo di un millimetro dall’intento di lavorare per una scuola che sia luogo di pace, di rispetto reciproco, di esaltazione dell’umano nel suo desiderio più genuino di ricercare il bene in tutte le sue manifestazioni, senza costruire muri, senza cadere in quella logica dell’odio, dello scontro di civiltà o religione nella quale i terroristi vorrebbero trascinarci. Oggi più che mai, tra le pareti scolastiche e nella vita civile abbiamo bisogno di persone che vivano un’esperienza di amicizia, di gratuità, di disponibilità verso l’altro. La paura non ci porterà via questa speranza. Sì, il nostro cuore ha urgenza di un bene possibile, già sperimentabile ora nel nostro Istituto. Guardiamo a “ciò che inferno non è e diamogli spazio”».

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