Economia
Calderini: «L’Iri del sociale? Un errore non considerare gli investimenti di impatto»
Il docente del Politecnico di Milano replica all'intervista di Manes: «La logica dell’argomento usato per liquidare la domanda sull’opportunità di sperimentare forme di finanza di impatto sociale non mi pare convincente»
Riceviamo e pubblichoamo l'intevento di Mario Calderini docente di Social Innovation Laurea Magistrale in Management Engineering – Politecnico Milano che replica all'intervista a Vincenzo Manes sulla nuova Iri per il sociale
E’ un po’ come se all’inizio del secolo scorso uno avesse detto: in giro ci sono quattro automobili e milioni di cavalli, meglio occuparci della biada perché il petrolio è una questione irrilevante. Tempi e contesti diversi, ma la qualità logica dell’argomento usato da Vincenzo Manes per liquidare la domanda sull’opportunità di sperimentare forme di finanza di impatto sociale nella cosiddetta IRI del sociale è più o meno la stessa.
Si sostiene infatti che, essendo il rapporto tra donazioni e investimenti di impatto fortemente sbilanciato a favore delle prime, un intervento di politica pubblica dovrebbe sostenere solo le prime e non i secondi. Mi permetto di osservare che si potrebbe serenamente sostenere anche l’esatto contrario. Perlomeno, la consequenzialità logica dell’argomento è piuttosto discutibile.
Questo naturalmente non equivale a dire – per differenza – che oggi ci sia un’evidenza conclamata che dovrebbe convincerci a indirizzare risorse pubbliche importanti all’investimento impact. Anzi, io sostengo che l’evidenza disponibile a favore dell’impact sia molto debole. Semplicemente, sarebbe necessario usare argomenti fondati su qualche elemento più consistente della semplice intuizione personale o della propria biografia.
Sia chiaro, la fotografia dell’impact investing oggi in Italia, ma anche nella gran parte del mondo è più o meno quella che fa Enzo Manes nell’intervista a Vita.it: un fenomeno di piccola scala, vivace nelle sue manifestazioni e circondato da una retorica spesso insopportabile da parte dei suoi numerosi evangelist. Ma è altrettanto vero che il nostro approccio a questo importante passaggio di politica pubblica per il sociale non può basarsi su un discrimine antropologico tra i buoni della finanza filantropica e gli inconsistenti della finanza di impatto.
A me sembra che ci siano una serie di argomenti che dovrebbero spingerci a considerare qualche esperimento di piccola scala che vada un po’ oltre gli schemi classici.
Il primo punto è di metodo e ha a che fare col fatto che sia perlomeno curioso che si ritenga che l’onere della prova stia su chi sostiene una linea che, con tutte le prudenze del caso, viene sperimentata in moltissimi paesi del mondo e non su chi invece invoca una non meglio motivata specialità nazionale che non consentirebbe queste stesse sperimentazioni.
Il secondo argomento è che per fortuna non saremo né io, né Vincenzo Manes, né nessun altro a determinare il tipo di finanza che dovrà essere offerta all’imprenditorialità sociale; gli strumenti finanziari saranno invece una proprietà emergente della complessa trasformazione dell’impresa sociale, di cui oggi cominciamo a intravedere alcuni tratti ma i cui esiti non sono facilissimi da prevedere.
E’ per esempio possibile ipotizzare che la disponibilità di tecnologie a basso costo, per l’individuazione e la soluzione di problemi sociali, abiliti paradigmi di intervento molto diversi dagli attuali, innescando processi di crescita, capitalizzazione e trasformazione da labour intensive a capital-intensive molto repentini. Oppure si potrebbe riflettere sul fatto che l’arretramento del welfare potrebbe spingere a reingegnerizzare i modelli di intervento fortemente nel segno della prevenzione, con tutte le implicazioni finanziarie del caso. E molte altre cose ancora che non è il caso qui di elencare.
Il punto è che oggi è davvero difficile prevedere che faccia avrà l’imprenditorialità sociale all’esito di queste trasformazioni e lo stesso Manes, onestamente, riconosce la necessità di guardare ad una platea molto ampia ed eterogenea di possibili beneficiari. Sarà non-profit che cresce e diventa technology-intensive? Sarà profit che articola e adatta la propria missione? Sarà altro? Difficile dirlo ma mi sembra altrettanto difficile escludere a priori che questa imprenditorialità avrà qualche caratteristica ibrida, diciamo pure di blended value e che come tale possa essere destinataria di investimenti della stessa natura.
Se così fosse, perché precludersi a priori la possibilità di sperimentare, anche con una piccola frazione del portafoglio, qualche strumento di impatto? Possibile che un così potente intermediario della donazione come quello disegnato nell’intervista da Manes abbia timore di qualche piccolo esperimento? Non si tratta di seguire una moda ma di avere un approccio empirico.
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