Economia
Manes: «Vi spiego come funzionerà l’Iri per il sociale»
Il consigliere per il sociale del premier Matteo Renzi entra nel dettaglio della nascitura Fondazione Italia per l'economia sociale. Il primo atto «sarà la presentazione di un emendamento del governo nel corso del dibattito sulla riforma del Terzo settore». L'intervista
di Redazione
Si chiamerà Fondazione Italia per l’economia sociale e sarà una sorta di Iri del sociale. Il progetto sta prendendo forma proprio in queste settimane dietro la regia di Vincenzo Manes (consulente ad personam e pro bono del premier Matteo Renzi in materia di sociale e Terzo settore). Vita.it ha incontrato Manes nel suo studio di Foro Bonaparte a Milano, «il sociale è tutto il contrario che un posto da sfigati. Lavorare nel social business oggi è molto d’appeal: lo dico a ragione veduta perché conosco tanti manager che non vedono l’ora di farlo anche e soprattutto di provenienza profit». Per svoltare davvero però «dobbiamo essere capaci di sostenere interventi che cambino la realtà che ci circonda, che la migliorino. Ma per non arrendersi allo status quo o al “già visto” occorrono buone idee, buoni manager, buoni progetti e buoni risultati», sostiene Manes.
Si chiamerà Fondazione Italia ma tutti la chiamano già “Iri del sociale”: le piace la denominazione?
Il nome l’ho suggerito io stesso qualche mese fa in un’intervista al Corriere Fiorentino. Poi è stata ripresa ed ha avuto fortuna. A mio parere rende l’idea: ben inteso mi riferisco all’Iri che negli anni 50 e 60 diede un contributo fondamentale per modernizzare il Paese.
Dal punto di vista giuridico quale sarebbe l’assetto?
Fondazione Italia sarà costituita a norma del codice civile come persona giuridica privata, senza scopo di lucro, per iniziativa dello Stato e sarà aperta alla partecipazione di fondazioni di erogazione, di imprese e di altri soggetti. Il fondo di dotazione sarà costituito da risorse in prevalenza private.
Ha un modello giuridico in mente?
L’Istituto italiano di Tecnologia.
Sarà istituita per legge d’accordo, ma quando?
Attraverso un emendamento governativo alla legge delega per la riforma del Terzo settore in discussione al Senato. La dotazione inziale sarà di un milione di euro.
Solo un milione di euro?
Oltre al milione, che è quanto prevederà la legge, puntiamo a raccogliere 50 milioni di contributi pubblici, 50 milioni di grant da fondazioni anche straniere e 50 milioni di donazioni da privati.
In questi mesi però si è parlato di un miliardo di euro…
Quello è un orizzonte a tendere da raggiungere con una raccolta fondi successiva alla fase di start-up. Per arrivarci dovremo mettere in campo alcuni strumenti specifici. Compito della Fondazione sarà quello di stimolare la diffusione in Italia, ad ogni livello e ad ogni ambiente, di pratiche donative a fini sociali, attraverso strumenti consolidati come la promozione di donazioni liberali e lasciti, ma anche mediante nuove forme come il crowfunding, le campagne associate al giving day (4 ottobre) e altri strumenti. Ma sempre con meccanismi volontari e di facile attuazione.
Qualche idea concreta?
“One for Italy”, ovvero si dona l’uno di qualcosa. Un brand che può essere applicato a tantissime iniziative. Penso per esempio a una campagna 1 per mille sui patrimoni finanziari privati. Se tutti i cittadini con un patrimonio privato superiore a un milione di euro devolvessero l’1 per mlle a un fondo per l’economia sociale otterremmo uno straordinario impatto sullo sviluppo sociale del Paese.
Questo sulla carta, perché chi ci assicura che lo faranno?
Per questi profili donare mille euro l’anno non cambia nulla. Ma la loro donazione produrrebbe un impatto sociale formidabile che renderebbe migliore il posto in cui loro stessi vivono. È questa la leva che vedo. Un riconoscimento pubblico ai grandi donatori, poi stimolerebbe la diffusione di questa forma di impiego. Ho già in testa anche il pay off: “Per te non cambia niente per loro tutto”.
Ha in mente qualcosa anche per i donatori meno danarosi?
Sotto il cappello di One for Italy, per esempio, potrà anche venir promossa una campagna per donare un euro su ogni acquisto superiore a 500 euro.
In Italia il monte delle donazioni da privati vale 4,8 miliardi di euro a cui ne vanno aggiunti almeno 2 veicolati dalla Chiesa. Pensa che la sua proposta possa in qualche modo drenare risorse oggi destinate ad altre realtà?
Io sto ragionando su risorse nuove, risorse che oggi sfuggono al sociale. In Italia i patrimoni privati valgono 4mila miliari di euro. L’1 per mille vale 4 miliardi. Quattro miliardi di nuove risorse.
Lei finora ha parlato esclusivamente di donazioni. Crede che si possa immaginare di aprire la Fondazione anche a investimenti con una qualche forma di remunerazione del capitale?
No, noi parliamo solo di donazioni. Il mercato dell’impact investing che va tanto di moda in Italia vale qualche milione di euro, quello delle donazione già oggi circa 12 miliardi. Il rapporto è questo, parlano i numeri.
A chi dice che il suo schema potrebbe funzionare in Usa, ma non da noi perché la fiscalità italiana sulle donazioni è decisamente meno premiante di quella statunitense, cosa risponde?
Che l’art bonus, che prevede sgravi al 65% ha generato un ritorno di appena 34 milioni. Il punto non sono tanto gli sgravi pur importanti, il punto è generare una cultura del dono.
Su 150 milioni di capitale di partenza, quanti saranno impiegati in progetti e quanti investiti?
Tolga 5/10 milioni che serviranno da “riserva” iniziale. Il resto auspicabilmente sarà tutto impiegato sui progetti.
Quindi il Fondo dovrà alimentarsi ogni anno esclusivamente attraverso il fundaraising?
È così.
Chi deciderà dove e come impiegare i fondi?
Io vedo un cda con un presidente di nomina pubblica e un consiglio composto inizialmente da dieci membri: 4 pubblici, e sei privati, tre in rappresentanza delle fondazioni e tre in rappresentanza dei singoli donatori. Poi naturalmente chi ci metterà le risorse avrà voce in capitolo.
Procederete per bandi?
No. Pensiamo di agire come una sorta di fondo strategico per il sociale. Chi vene da noi dovrà sottoporci un progetto sociale. Se ci convincerà entreremo nel capitale con donazioni in una logica strettamente top down: noi ci mettiamo i soldi, noi indichiamo il management e il modello di governance. I progetti per passare il vaglio oltre ad avere un robusto impatto sociale dovranno puntare a rendersi autonomi nel medio periodo. Il nostro supporto avrà una durata di 7/10 anni, dopo di che le varie realtà dovranno comminare con le loro gambe.
Che tipo di investimenti?
Direi dai 20 milioni di euro in su. L’ottica è di sostenere iniziative di una certa entità che siano in grado di rispondere a bisogni sociali diffusi, ma insoddisfatti e che abbiamo una alta capacità occupazionale.
Quale forma giuridica dovranno avere i beneficiari del vostro intervento?
Qualsiasi. A me non interesse se sono cooperative sociali oppure spa, a me interessa che rispondano in modo efficace ai bisogno sociale e che creino lavoro. Per questo servono professionalità di alto livello.
E come pensa di convincere top manager a venire a lavorare in un settore dove le remunerazioni sono più basse del 20/30/40% a parità di ruolo?
La sua è una visione vecchia, ormai siamo in un altro film: quello che fa la differenza è il quid in più di passione straordinaria insita in tante esperienze che in questi anni ho conosciuto in giro per il mondo. È questo che attrae. La Fondazione partirà l’anno prossimo e io ho già ricevuto un sacco di mail e telefonate di gente che vorrebbe venire a lavorare in questo progetto.
Nel suo futuro quindi si vede come presidente delle Fondazione Italia?
Per me sarebbe un grandissimo onore.
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