Volontariato

La nostra battaglia contro il niente. Dialogo con Miguel Benasayag

La nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio. Un dialogo con lo psicoanalista argentino Miguel Benasayag che ci ricorda la necessità del conflitto per una ridefinizione dello spazio comune. Perché "se le persone non trovano quel che desiderano, si accontentano di desiderare quello che trovano".

di Marco Dotti

La nostra è l’«epoca dei grandi proclami, delle notizie terrificanti e degli atti d’accusa». Eppure, osserva Miguel Benasayag, tutti questi discorsi non solo non conducono a nulla, ma neppure ci toccano più, tanto sono distanti dalla vita e dalla possibilità di intervenire concretamente nella realtà quotidiana. Il vero pericolo, in un’epoca come questa, è rappresentato dal niente. Un niente circondato dalle belle parole e dai grandi discorsi.

Per Benasayag, filosofo e psicoanalista di origine argentina trapiantato da molti anni a Parigi, attendo osservatore dei problemi dell'infanzia e dell'adolescenza, quando ci rivolgiamo ai grandi discorsi, ci condanniamo anche a fare il contrario di ciò che quelle "belle parole" afferman. O, quanto meno, a fare qualcosa che non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con quello che realmente significano. Contro la mortificazione che orienta l'individuo contemporaneo verso un fondamento che persino definire nichilista è troppo – sarebbe troppo onore – Benasayag ha offerto alcunechiavi di lettura lucide, ben esemplificate in due dei suoi libri: L'epoca delle passioni tristi (scritto con Ghérard Schmit, Feltrinelli, Milano 2005) e Contro il niente (Feltrinelli, Milano 2005).

Sacrificio e dono di sé

Viviamo in una società schiacciata dal peso e dai “limiti dell’utile”. Non solo il discorso economico preso in sé, ma anche la scuola, la formazione dei giovani, persino la “cura” intesa in senso lato, sono oramai improntati a standard di mera efficienza e funzionalità. Non se ne esce, sembra C’è un modo per sottrarsi a questa logica “triste” che antepone cifre e calcoli alla persona umana?

Il problema di questa visione utilitaristica, oramai dominante, è che rende assoluta una dimensione comunque reale, ma relativa. L’utilitarismo vorrebbe presentarsi come l’unica realtà possibile, cogliendo però una sola dimensione della vita. Per resistere a questa logica bisogna sviluppare e valorizzare altre dimensioni molteplici della vita sociale e personale. Soprattutto ora, in un momento di forte crisi, recuperando, ad esempio, la dimensione del dono e del gratuito. Il legame sociale è sempre stato fondato sulla logica del dono e del contro-dono, non solo su quella dell’utile. Quando lo studioso francese Marcel Mauss studiò questa logica, negli anni Venti del secolo scorso, mise in evidenza il complesso rapporto tra la libertà del donatore e l'obbligo morale del ricevente. La consegna del dono si svolgeva all'interno di un rito, Mauss studiò infatti il potlàc, ossia la cerimonia che fondava l’economia del dono in alcune tribù indiane del nordamerica, ma presto comprese che la logica del dono era conservata anche nelle società più moderne, le sue tracce erano pero nascoste a una “profondità antropologica” profonda. Anche oggi possiamo affermare che ogni società, non solo quelle arcaiche, mantiene come modalità di regolamento del legame sociale pratiche più o meno “sacrificali”: si dona, sacrificando parte delle proprie ricchezze, rinunciando a parte del proprio possesso, garantendo al sistema di non divorarsi da sé.

Crede sia davvero possibile questo ritorno al dono? La nostra è una società molto, molto più complicata – non dico meno complessa, dico più "complicata" – rispetto a quelle scoperte e descritte dagli scienziati sociali nella prima parte del XX secolo… Allora, un altrove sembrava ancora possibile. Oggi anche immaginarselo come utopia, questo altrove, è impresa da folli… Ma forse nemmeno i folli sanno più sognare, sono ridotti a deliri da rotocalco…

Sicuramente è così, ma aggiungerei che in quanto uomini della cosiddetta tarda modernità siamo parte di una società che per la prima volta nella storia pretende di non essere in nulla e per nulla dedita al sacrificio, una società che si dichiara e si vuole intergralmente razionalista. Ciò implica che il nostro mondo – ricco, edonista, occidentale – sia sempre più legato a un scambio “razionale”, avendo apparentemente espulso da sé la logica del dono. Il sistema del sacrificio, però, non può essere superato semplicemente ignorandolo, come pretendono i “nostri” economisti, per questa ragione il dono risiede ancora – rimosso e negato a parole – sotto forme e modalità sinistre, pericolose e perverse. Il nostro lavoro consiste nel portare in piena luce questo contenuto rifiutato, spiegando che la vita si muove su molteplici livelli di complessità che si allontanano dalla logica utilitaristica. Il pensiero della gratuità è certamente una porta, e non la minore, per accostarsi alla comprensione di questa complessità.

Tornare al dono non è, quindi, solo un modo per aderire a una morale astratta di bontà e giustizia, ma una forma pratica per orientare le nostre scelte, per dirigerci verso una esistenza più giusta e felice, per impedire che all’altro si possa paradossalmente donare solo la morte, e non la vita.

Attraversiamo però un contesto di crisi profonda da almeno sette anni. L'ambiente è diventato in sé e per sé critico e l'individuo rischia se non l’autodistruzione, quanto meno lo stordimento permanente, non crede?

La distruzione si trova al centro del meccanismo della crisi, è normale che tale funzione colonizzi gli individui e la loro mente. Sotto questo punto di vista i comportamenti che conducono allo sviluppo della violenza sono la manifestazione concreta della crisi.

Ed è proprio per questo che bisogna avere una visione d’insieme che non separi in modo artificiale la vita delle persone del contesto sociale ed antropologico nel quale vivono, in modo che le persone sviluppino la loro singolarità e non il loro individualismo. Essi devono infatti sentirsi e rappresentare una sfaccettatura della loro epoca e della storia, non considerarsi ammassi di cellule prive di centro e senza comunicazione con l'esterno.

L'individualismo estremo è l'ultimo lusso che si possono permettere i mega-ricchi dei paesi ricchi.


Solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro. La nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati. Come dice Guy Debord: se le persone non trovano quel che desiderano, si accontentano di desiderare quello che trovano

Miguel Benasayag e Ghérard Schmit, Les passions tristes. Suffrance psychique et crise sociale (a Découverte, Paris, 2003)

Generare legami o produrre il vuoto

Non le pare vi sia una tendenza generale all’apatia e all’autismo sociale e il conflitto venga invece accettato solo quando assume tratti autodistruttivi e non trasformativi?

Personalmente penso che ci sia una perdita di potenza a tutti i livelli. Questa diminuzione di potenza assume la forma di una perdita della dimensione del conflitto.

Dobbiamo comprendere il conflitto non solo come lotta e violenza. La lotta è certamente una dimensione particolare del conflitto, non l'unica.

Il problema, però, risiede nel fatto che la nostra società convoglia tutte le dimensioni del conflitto nella lotta. Può sembrare un paradosso, ma per diminuire la violenza in circolazione bisogna al contrario sviluppare la molteplicità dei conflitti, sottrarli a quell'unica dimensione.

Crede che dal mondo giovanile possano nascere nuove forme di lavoro politico e di rapporto “etico” con il pianeta e con l’altro da sé? È possibile tornare al futuro come promessa e non come “minaccia”?

Credo che per produrre e costruire nuovi legami con la società e con l’ambiente – legami che vadano nella direzione della gioia, non della tristezza – non ci sia bisogno di ricostruire l’immagine di una promessa di futuro. Dobbiamo trovare un motore diverso che orienti i nostri ragazzi e che funzioni in modo immanente, senza far riferimento a illusioni (il sol dell'avvenire) o a minacce (l'apocalisse prossima ventura). Da questo punto di vista la perdita di futuro non è affatto una catastrofe. In questa direzione possono operare gli insegnanti.

L’insegnamento al giorno d’oggi è diventato terreno di conflitto fondamentale, bisogna che gli insegnanti imparino a resistere all’utilitarismo sviluppando delle pratiche pedagogiche che rifiutino di formattare gli allievi come semplici risorse umane. "Risorse umane", che espressione apparentemente innocua, ma al tempo stesso terribilmente pericolosa!

È una sfida per gli insegnanti, ma se questi riuscissero ad esser vincenti in questa sfida potrebbero essere valorizzati agli occhi della società poiché staranno compiendo una missione molto importante.

In che modo gli educatori possono agire per decostruire nella mente dei ragazzi il principio del “tutto e subito” se ogni cosa all’esterno della scuola va nella direzione contraria? Più che al lavoro di di Penelope, che è scaltra resistenza nel fare e nel disfare, insegnanti e educatori sono costretti all'inutile, annientante fatica di Sisifo…

Gli educatori possono far cambiare la tendenza semplicemente uscendo dalle frontiere della scuola. Bisogna che gli insegnati ri-territorializzino il loro lavoro, ciò significa costruire meno situazioni virtuali nell’insegnamento e creare dei rapporti con la vita e non soltanto con dimensioni astratte, economiche o produttiviste. Poiché la vita supera largamente l’economia e la produzione, i suoi orizzonti sono immensamente più ampi.

Purtroppo si ha la tendenza a reprimere tutto quello che si sviluppa oltre i confini che ci sono stati assegnati. Ma noi abbiamo il compito di andare oltre, in ogni caso. È la vita che ce lo chiede. Vincere o perdere non dipende da noi. Da noi dipende la qualità della lotta.

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