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“A quegli occhi, a quelle urla, non ti abitui mai”

Intervista a Francesco Malavolta, fotografo che da anni lavora nei punti più caldi e drammatici dei flussi migratori: dalle navi di soccorso nel Mediterraneo ai porti di approdo, dalle isole greche ai confini di terra carichi di tensione.Ecco i suoi scatti delle ultime ore dal confine greco-macedone

di Daniele Biella

Francesco Malavolta non è una persona facile da impressionare: da quasi 20 anni con il suo lavoro di fotografo è stato in prima linea in molte situazioni difficili, in particolare nei luoghi più drammatici delle migrazioni. Ha dovuto e deve scattare foto di persone che lottano tra la vita e la morte nelle onde, di corpi recuperati dopo un naufragio, e, negli ultimi tempi, anche di tensioni altissime ai confini terrestri della Fortezza Europa, dove migliaia di profughi ogni giorno stanno tentando di entrare alla ricerca dell’asilo politico e di ricominciare da capo, loro malgrado, l’esistenza. Raggiungiamo Malavolta (autore degli scatti che vedete intervallati qui sotto, effettuati negli ultimi giorni) dopo una settimana passata a lavorare giorno e notte al confine greco-macedone e in procinto di spostarsi, nelle prossime ore, in quello tra Serbia e Ungheria. Freelance, collabora correntemente con Unchr, l’Agenzia Onu per i rifugiati, Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni, e Frontex, l’Agenzia dell’Unione europea per il controllo delle frontiere, con la quale sale a bordo delle navi a documentare le operazioni di salvataggio, cosa che faceva anche con Mare Nostrum.

Cosa riprende il tuo obiettivo?
Sia al confine di terra che nel mare e sulle isole come Lesbos, dove ero la scorsa settimana, la scena è quella di migliaia di persone esauste che cercano tra mille difficoltà una via verso il Nord Europa. Riprendo immagini che cercano di documentare uno dei periodi storici più importanti dal dopo guerra.

Come ti approcci con i profughi in fuga?
Lavoro da molto sui flussi migratori, e negli anni ho incontrato esseri umani sicuramente diversi tra loro per provenienza, motivazioni a altri aspetti. Ma nonostante le enormi diversità di chi scappa dall’Africa o dal Medioriente, il mio approccio rimane uno solo: cerco di raccontare tutto con lo stesso sguardo, dando attenzione alle cose piccole e che sembrano banali ma non lo sono. L’importante è non farlo diventare un fenomeno idraulico, che lasci scorrere: non si può, ogni persona ha una storia e un vissuto che, nei limiti del possibile, devi intuire e condividere.

Quali sensazioni ti hanno suscitato i loro volti, le loro storie?
Più che i loro racconti, dato che molte volte il tempo a disposizione è davvero poco, soprattutto nei momenti di emergenza, negli attimi precedenti allo scatto di una foto mi fermo molto sui volti, sugli occhi. Cerco di fotografare sempre gli occhi. Se sai leggerli riesci quasi a percepire le loro storie: sempre diverse, come sono diversi gli occhi. Spesso si dice che ci si abitua a quegli occhi, che parlano di dolore, disperazione, ma anche speranza, così come ci si abitua alle urla nel buio che senti quando scorgi un’imbarcazione nella notte. Ma non è così: a quegli occhi, a quelle urla non ti abitui – e non ti devi abituare – mai.

Negli ultimi giorni sei stato tra Grecia e Macedonia: come ha visto l'azione delle forze dell'ordine dai due lati?
La polizia greca, il cui operato seguo da tanti anni avendo lavorato molto in passato soprattutto nelle zone tra Evros e Orestiada, credo che si sia "ammorbidita " molto negli ultimi tempi: sempre più spesso li ritrovo a formare gruppi di profughi e accompagnarli al confine, dove li consegnano ai militari macedoni. Di certo nei mesi scorsi c’è stata molta tensione e abbiamo visto tutti gli scontri, ma ora c'è più distensione, nei limiti della situazione perché data la precarietà delle condizioni delle persone e la loro stanchezza dopo tanti giorni di cammino, non mancano i momenti tesi. Probabilmente si paga una gestione dei flussi non ben definita, considerato anche il gran numero dei profughi.

E l’operato delle agenzie umanitarie presenti sul luogo?
Sono presenti sia molte ong, tutte all’opera con un gran lavoro, sia l’Alto commissariato dell’Onu. Proprio l’Unhcr è presente con un numero massiccio di volontari che vanno oltre i loro probabili compiti – non lo dico perché sono tra i miei committenti, se ci fossero critiche da fare, non mi tirerei indietro – come la distribuzione di viveri, il cercare una mediazione durante gli attimi di tensione.

Vedi una via d'uscita alla situazione attuale, così drammatica e numericamente imponente?
Vorrei vederla e in qualche maniera ci credo. Ma alle dichiarazioni del governo tedesco verso una maggiore apertura e quindi un cambiamento di rotta, sono seguiti passi indietro come il muro e le forti resistenze del governo ungherese, che hanno portato anche agli scontri delle ultime ore. Nonostante tutto, credo che con una maggiore forza di volontà dei singoli da una parte e dei governi dall’altra, possiamo vedere un futuro migliore. Resta il fatto che è fondamentale il compito di chi fa informazione, perché mantiene vive, e in alcuni casi risveglia, le coscienze: quindi non ci si deve fermare, anche se a volte il buio della notte, così come quello della ragione, diventa assordante.

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