Welfare

La grande lezione di Roberto Wirth

Nato sordo profondo e costretto a misurarsi con i pregiudizi degli altri, il proprietario dell’hotel Hassler di Roma racconta in un libro autobiografico la sua vita straordinaria. E lancia una proposta: rendere obbligatorio anche in Italia l’apprendimento della lingua dei segni

di Marina Moioli

È il primo e unico manager sordo profondo dalla nascita che sia riuscito a dirigere un grande hotel di lusso, quell’Hassler a Trinità dei Monti a Roma che rappresenta uno dei brand indiscussi della capitale. E ora Roberto Wirth, 65 anni, ha anche deciso di raccontarsi nell’autobiografia “Il silenzio è stato il mio primo compagno di giochi” (Newton Compton editori). Senza edulcorare dolori e ferite e senza neppure cedere alla tentazione di autocelebrarsi «perché la sofferenza ti rende chiaro, onesto, diretto», dice. Il suo è il racconto di una vita autentica, ricca di vittorie e di conquiste dopo una partenza inevitabilmente svantaggiata. Una storia avvincente di tenacia, passione e coraggio contro un mondo ostile. Il racconto di una vita difficile, che rischiava di traghettarlo verso la solitudine. Invece, come spiega a Vita, lui è riuscito a vincere la sua grande scommessa.

«La mia famiglia è di origini svizzere, siamo gente abituata alla precisione. Di più, alla perfezione. E io ero l’incarnazione del difetto, un bambino sbagliato», scrive nel suo libro. Per scontare questo “peccato originale” ha dovuto affrontare l’allontanamento a Milano a cinque anni per frequentare una scuola speciale, la Scuola Tarra. Che ricordo ha di quegli anni?
Il ricordo tormentato di un bambino lontano dai suoi affetti, dai genitori e dai fratelli, trasferito a cinque anni da Roma a Milano, una città che non conoscevo: a fin di bene, per frequentare un istituto specializzato per sordi, ma non è stato affatto semplice. La solitudine, il senso di abbandono, il rincorrersi di giornate tutte uguali e noiose: la mattina prendevo il tram per andare a scuola, restavo quasi tutto il giorno in classe, tornavo a casa, facevo i compiti e andavo a letto. Per fortuna avevo accanto a me la governante, la signorina Win, che mi ha sostenuto e dato l’affetto che mi mancava. Per me è stata davvero una seconda mamma.

Da bambino si sentiva “un naufrago della vita”. Chi l’ha aiutata a non perdere la speranza? E quando ha avuto la percezione di potercela fare?
Ho sempre cercato dentro di me la forza per andare avanti, per realizzare un sogno che fin da piccolo aveva inseguito: occuparmi dell’albergo di famiglia. Devo dire, onestamente, che le difficoltà e le sofferenze che ho dovuto affrontare mi hanno forgiato, davvero come si fa con un metallo, hanno costruito e rafforzato il mio carattere che già per natura era piuttosto robusto. Siamo una famiglia di origini svizzere, con molta cultura tedesca: dunque, determinati, anche duri, se vogliamo. Sono cresciuto così, convinto che ce l’avrei fatta e da adulto ho fatto mio un motto semplice: “never give up”, non mollare mai, che è diventato il titolo di una mia piccola scultura, una mano chiusa a pugno, il simbolo di una volontà che raccoglie tutte le energie. Potrà anche sorprendere, ma tranne in qualche momento di particolare tristezza, sono sempre stato ottimista, convinto che prima o poi sarei riuscito a raggiungere i miei obiettivi.

Oggi molte cose sono cambiate e un bambino che nasce sordo sicuramente non deve più percorrere un percorso così difficile e doloroso. Si sente un esempio per gli altri?
Non sono affatto un supereroe, ma posso essere considerato un incoraggiamento per quei bambini che come me nascono sordi. E un riferimento per i genitori, che spesso ancora oggi guardano con disperazione a un bambino sordo: non è così, se si interviene presto, nell’età giusta, si possono ottenere straordinari risultati. Ed è proprio questo il messaggio che con il libro abbiamo voluto dare: guardare avanti con determinazione e fiducia. Ancora una volta, “never give up”, non mollare mai.

I diritti d’autore del libro andranno a Cabss Onlus, il Centro Assistenza per Bambini Sordi e Sordociechi che ha fondato nel 2004. Che iniziative porta avanti l’associazione?
Cabbs si occupa di supportare sia i piccoli sordi e sordociechi che le loro famiglie, spesso smarrite, a volte gravate da un ingiustificato e dannoso senso di colpa per aver messo al mondo un bambino, secondo loro, “imperfetto”, con il rischio poi di scaricare sui figli ansie e angosce. Li aiutiamo con una serie di programmi specialistici, grazie a un’equipe formidabile guidata dalla direttrice di Cabbs, la dottoressa Stefania Fadda.

Da ragazzo ha frequentato, unico sordo in classe, un istituto dei Padri Scolopi . All’epoca non esistevano gli insegnanti di sostegno: come ha fatto?
Con molta fatica e tantissimo impegno. Anche la vita sociale e di relazione, per un bambino sordo negli anni ’60, era complicata: non mi sentivo parte di alcun gruppo e questo era doloroso. Cercavo in attività alternative la soddisfazione e l’affermazione che, ad esempio, nelle materie scolastiche tradizionali non riuscivo ad avere. Eccellevo nello sport, corsa, nuoto, calcio e questo mi consentiva di avere un ruolo importante fra gli amici e i compagni di scuola, di non essere marginale. Ma è evidente che si trattava di una soluzione istintiva, empirica, che non può essere presa a modello. Allora funzionava, oggi non potrebbe più bastare. Credo sinceramente che chiunque si trovi in difficoltà vada aiutato nel miglior modo possibile: la vita delle donne e degli uomini di domani comincia sui banchi di scuola. Scienza e ricerca offrono oggi strumenti innovativi che consentirebbero di fare giganteschi passi in avanti: ma non mi sembra ci siano né le intenzioni né le risorse disponibili per un deciso cambio di atteggiamento.

La lingua dei segni in Italia si sta diffondendo, ma non abbastanza. Cosa si dovrebbe fare per farla conoscere di più?
Renderne obbligatorio l’apprendimento per tutti. Non è difficile e farebbe fare un salto in avanti alla nostra società, in termini di uguaglianza, giustizia e solidarietà. In America, ma anche in altri Paesi, negli ospedali o nei posti di polizia c’è sempre qualcuno – e lo dispone la legge – che conosce la lingua dei segni. Da noi non è così. E se in un semplice incidente stradale sono coinvolti un sordo e una persona udente, i vigili urbani che intervengono, come fanno a comunicare con la persona sorda?.

Cosa vorrebbe che cambiasse nell’atteggiamento dei cosiddetti “sani” verso chi è sordo?
Innanzitutto non sono sani, perché noi non siamo malati. La sordità non ha segni evidenti, è un handicap invisibile e per questo è ancora più difficile da governare. Chi mi vede pensa che io sia una persona come tutti gli altri, non ho il bastone bianco di un cieco. Noi sordi abbiamo più problemi di comunicazione rispetto ad altri. Perché nessuno ha coscienza immediata delle nostre difficoltà e dobbiamo sempre spiegare quali sono. Una vita difficile che rischia di traghettarci verso la solitudine. Se la lingua dei segni fosse maggiormente diffusa tutto sarebbe più semplice.

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