Economia
Finanziare l’impresa sociale, come?
Lo si può fare a debito o attraverso investimenti. Faccio fatica a capire perché il rendimento senza limiti del debito sia una distorsione sulla quale non ho mai sentito nessuno gridare allo scandalo, mentre la remunerazione del capitale, pur con forti limiti, sia da molti ancora considerata un tabù
Ho letto con attenzione il recente contributo di Vicenzo Manes, consigliere del Presidente del Consiglio per il Terzo Settore, sul tema dei contributi privati agli enti senza fini di lucro (leggi qui). Nell’articolo dichiara esplicitamente di non credere negli investimenti privati nel sociale e, conseguentemente, che la discussione sulla remunerazione del capitale nell’impresa sociale sia in realtà un “falso problema” in quanto nessun investitore privato investirà mai nel terzo settore, aggiungendo che “coloro che cercano guadagni nel sociale hanno già oggi strumenti più garantiti e remunerativi dell’investimento in capitale, come ad esempio i bond sociali”. Solleva infine il problema su come la remunerazione del capitale all’interno del non profit potrebbe generare rischi di reputazione per le organizzazioni del terzo settore.
Conosco bene il pensiero di Vincenzo sull’impresa sociale perché ne ho discusso con lui diverse volte. L’opinione di Vincenzo, che però non rende esplicita nel suo intervento, è che lui non crede affatto nel concetto di impresa sociale. Per lui, come per molti dei consulenti del Premier, l’impresa è una ed una sola e deve avere le regole proprie del mercato, le uniche che funzionano. Vincenzo tiene a non mischiare e mantenere ben distinti i tre settori: pubblico, profit e terzo settore. Se poi un imprenditore, intende dedicarsi al sociale, come lui ha fatto con le belle iniziative di Fondazione Dynamo e Dynamo camp, il sistema di intervento è uno solo ed è quello filantropico. In altre parole il modello a cui Vincenzo si ispira è quello a due tempi, di pura matrice anglosassone: prima il mercato e poi la filantropia. Ovvero prima massimizzo i ritorni economici – ed in quel momento le uniche regole le detta il mercato – e poi in un secondo tempo una parte di questi ritorni, se sono un imprenditore sensibile e responsabile, li offro alla comunità attraverso un organizzazione non profit che deve essere, giustamente (e siamo d’accordo) sostenibile.
Non mi interessa qui discutere su questo “sistema a due tempi” né evidenziare come già oggi esistano modelli ibridi più complessi che superano questa dicotomia tra pubblico, profit e non profit (vedi sul tema l’intervento di Roberto Randazzo). Intendo più semplicemente riprendere il tema principale che solleva Vincenzo nel suo articolo e che riguarda le possibilità di investimento nel sociale. Due le domande:
- Ha senso parlare di investimenti nell’ impresa sociale?
- Esistono soggetti profit interessati ad investire nel sociale ?
Se rispondiamo positivamente ad entrambe le domande allora ha senso parlare di remunerazione limitata del capitale per la nuova impresa sociale, altrimenti ha ragione Vincenzo Manes: stiamo montando una discussione su una modifica che sarà inefficace ed inutile.
Ha senso parlare di investimenti nell’impresa sociale? Cominciamo con il dire che in linea di principio un’impresa sociale non dovrebbe far ricordo alla beneficienza e alla filantropia se non in una fase di start-up. Una delle caratteristiche chiave che la distingue da altre organizzazioni del terzo settore è infatti la capacità di raggiungere la sua finalità sociale attraverso un modello che sia economicamente sostenibile sul mercato. In qualche modo un’impresa sociale che si regge grazie alla beneficienza privata o a sovvenzioni pubbliche è una contraddizione in termini. A quel punto non possiamo parlare di impresa, ma semplicemente di onlus. Superato questo punto passiamo a ragionare su quale forma di finanziamento sia più corretta tra debito e investimento. Innanzitutto ha ragione Vincenzo a ritenere che se un soggetto for profit vuole finanziare un soggetto non profit può decidere di finanziarlo a debito, perché oggi ci guadagna di più e rischia di meno. Ma è proprio questo il punto. Innanzitutto non capisco perché questo aspetto non alzi altrettanti – se non superiori – perplessità sugli appetiti della finanza nel sociale; ho già scritto qui come con l’attuale legge 155/2006 un finanziatore a debito dell’impresa sociale non abbia alcun limite di remunerazione ai suoi prestiti (entro il tasso di usura), mentre ad un investitore in equity non si consente nemmeno di mantenere il valore reale del capitale investito. Faccio ancora fatica a capire perché il rendimento senza limiti del debito sia una distorsione sulla quale non ho mai sentito nessuno gridare allo scandalo, mentre la remunerazione del capitale, anche con forti limiti, sia da molti ancora considerata un tabù. Se accettiamo che il denaro abbia un costo e che quindi debba essere remunerato, perché facciamo questa enorme distinzione tra capitale e debito? Il tema in realtà è più profondo e riguarda il rapporto tra finanziatore e soggetto finanziato. Chi decide di investire in un’impresa ne accetta implicitamente la missione, se ne assume il rischio, partecipa alla gestione strategica, insomma “ci mette la faccia” in modo trasparente. Chi invece presta i soldi non è presente nella governance dell’azienda (il che non vuol dire che non sia in grado di influenzarla) e la relazione con il soggetto finanziato è strutturalmente più debole rispetto ad un investitore in equity. In altre parole chi investe ha una logica di business e di lungo periodo, chi presta denaro ha invece una logica finanziaria e più di breve. Oggi le cooperative sociali, “imprese sociali de facto” (che, ricordo possono distribuire utili con limiti in base alla tipologia di socio), sono in grado di contrarre debiti con il sistema bancario senza grandi problemi, anche grazie ad un rapporto tra fatturato e patrimonio mediamente sano. Il loro problema però è che non riescono ad attrarre investitori in capitale perché la forma della cooperativa non è compliant per un investitore profit. Infatti, quelle (numerose) cooperative sociali che oggi collaborano in modo strutturale con aziende profit sono state costrette a costituire JV sotto forma di imprese di capitale (profit o SIAVS) all’interno delle quali hanno definito modelli di gestione più “comprensibili” agli investitori privati. Ci troviamo quindi nella strana situazione in cui le cooperative sociali pur potendo distribuire utili non hanno una forma societaria attrattiva per gli investimenti , mentre le “imprese sociali di capitale” hanno una forma sociale compliant per gli investitori privati ma non possono distribuire utili. Uno degli obiettivi principali della modifica alla 155/2006 deve proprio essere quello di rendere attrattiva la nuova impresa sociale per gli investimenti, altrimenti per continuare a finanziare a debito il terzo settore sono più che sufficienti le cooperative sociali. La proposta di allineare il rendimento del capitale delle imprese sociali allo stesso livello consentito alle cooperative sociali va, appunto, in questa direzione.
Esistono soggetti profit interessati ad investire nel sociale? La risposta dipende da come definiamo gli ambiti del sociale. Se pensiamo a beni e servizi di interesse generale come i servizi pubblici locali (l’energia, la gestione del ciclo idrico), la sanità, l’housing sociale, i beni culturali, l’istruzione, l’ambiente, i parchi, i terreni agricoli, le infrastrutture di interesse pubblico, allora non c’è da domandarsi se ci saranno investitori privati interessati ad investire in questi settori. Aziende ed investitori privati, spesso quotati in borsa, sono già oggi presenti in questi ambiti nei quali perseguono la missione di massimizzare il proprio ritorno sul capitale investito. Quindi la vera domanda non è se esistono investitori privati che vogliono investire nel sociale, ma piuttosto se attraverso la nuova impresa sociale intendiamo regolare, almeno in parte, gli investimenti nel sociale o se invece desideriamo anche su questi ambiti lasciare spazio al liberismo del “mercato per il mercato”. In questa accezione, la “nuova impresa sociale” potrà essere considerato un nuovo strumento che affiancherà senza avere la pretesa di sostituirlo il modello di privatizzazione tradizionale; uno strumento che potrà essere scelto da quegli amministratori pubblici che intendono mantenere l’interesse generale nella gestione di alcuni beni e servizi utilizzando un modello di impresa economicamente sostenibile in grado di attrare investitori non speculativi e con logiche di lungo periodo. Di fatto si tratta di aggiungere una nuova classe di “investimento responsabile” che propone un rapporto diverso di rischio/rendimento a cui anche grandi aziende con ad esempio Enel, Assicurazioni Generali, Poste Italiane potrebbero allocare anche una piccola parte dei loro asset finanziari insieme a quelli dei fondi infrastrutturali e dei fondi pensione.
Questo secondo punto mi porta ad una ultima riflessione. Siamo tutti d’accordo che la sfida sia quella di rafforzare il terzo settore e renderlo sempre più indipendente dalla finanza pubblica, così come siamo d’accordo che la nuova impresa sociale possa rappresentare uno degli strumenti in grado di accelerare questo processo. Ma se per un attimo ragionassimo anche al contrario? Se la nuova impresa sociale fosse non solo un ponte per portare nuove risorse al terzo settore, ma anche per portare nel profit alcuni dei valori propri del terzo settore? Non vorrei che l’eccessiva attenzione che si pone nel portare la finanza nel terzo settore non faccia altro che tenerlo marginale rispetto all’economia dominante e sviare l’attenzione sulla necessità di cambiare non tanto il terzo settore, ma piuttosto una parte del profit e della finanza, soprattutto quando intende occuparsi di beni comuni.
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