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Riforma Terzo settore, la relazione di Lepri

Al via i lavori in Commissione Affari Costituzionali. In anteprima su Vita.it l'intervento del relatore Stefano Lepri: «Con il testo proposto, il Terzo settore diventa un’espressione giuridicamente fondata, un soggetto cui l’istituzione riconosce un ruolo centrale in aspetti strategici per lo sviluppo»

di Redazione

Si è di fatto aperta questo pomeriggio la discussione al Senato sul “Disegno di Legge Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale”. A “rompere il ghiaccio” dopo il nulla di fatto di settimana scorsa a seguito del conflitto di attribuzione sollevato da Forza Italia con Maurizio Sacconi è stata la relazione introduttiva del relatore, il senatore Stefano Lepri. Testo, che Vita.it è in grado di pubblicare in anteprima. I lavori della commissione presieduta da Anna Finocchiaro sul testo (AS 1870) proseguiranno domani.

Premessa

IL FOCUS:  “Con questo provvedimento il Terzo settore si trasforma da espressione sociologica che gli studiosi utilizzano per racchiudere un insieme di elementi eterogenei e ispirati a normative differenti a soggetto giuridico soggetto cui l’istituzione riconosce un ruolo centrale in aspetti strategici per lo sviluppo del Paese”

 Il Disegno di Legge Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale giunge all’esame del Senato della Repubblica dopo un lungo percorso, partito con una consultazione pubblica su un documento di orientamenti e principi, cui hanno partecipato oltre mille soggetti, da persone fisiche a organizzazioni di terzo settore rappresentative delle differenti sensibilità e vocazioni. Dopo ampie audizioni presso la Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati e un’approfondita discussione, il testo è uscito migliorato rispetto alle formulazioni iniziali.

Il Disegno di Legge che da oggi ci si appresta ad esaminare, anche grazie a questo positivo processo di ascolto e rielaborazione, rappresenta una risposta convincente a molte delle istanze che stanno all’origine della sua proposizione.

Sino ad oggi “Terzo settore” è stata solo un’espressione sociologica, che gli studiosi utilizzano per racchiudere un insieme di elementi eterogenei e ispirati a normative differenti. Con il testo proposto, il Terzo settore diventa un’espressione giuridicamente fondata, un soggetto cui l’istituzione riconosce un ruolo centrale in aspetti strategici per lo sviluppo del Paese.

Il testo giunto al Senato affronta in modo convincente questioni ereditate dagli anni passati, sia con l’obiettivo di semplificare l’operatività di chi è impegnato in queste meritorie attività, sia per rendere alle istituzioni e ai cittadini maggiormente identificabili le attività di terzo settore.

E in ultimo – senza con ciò voler esaurire i meriti del testo a noi sottoposto – sono poste le basi per poter realizzare un’attività di verifica, monitoraggio e controllo delle organizzazioni di terzo settore, utile ad evitare o quanto meno a limitare abusi che hanno esiti mortificanti per le tantissime persone che nel terzo settore operano mosse da autentico spirito di solidarietà e per i cittadini che in tali organizzazioni confidano.

Questi e molti altri aspetti vanno ascritti a meriti del DDL così come formulato al termine della discussione presso la Camera dei Deputati.

Da oggi il Senato della Repubblica è chiamato a valutare questo testo, intervenendo laddove esso potrà risultare ancora passibile di miglioramenti. Di qui in avanti, si avanzano riflessioni e proposte su questioni su cui potrebbe essere opportuna un’ulteriore riflessione”.

Articolo 1:

IL FOCUS:  “Il testo complessivo presenta alcune incertezze circa l’appartenenza a pieno titolo dell’impresa sociale al terzo settore. In alcuni passaggi, infatti, sembra che si vogliano disciplinare due tipi di soggetti distinti, per quanto contigui (ad es. l’articolo 9, comma 1, lettera g che si riferisce agli investimenti “degli enti di terzo settore e delle imprese sociali” quasi che si tratti di due diverse entità). Va quindi chiarito, sia nell’articolo 1 che nel testo complessivo, che le imprese sociali sono ricomprese entro la dizione “enti privati” e che esse fanno indiscutibilmente parte a pieno titolo del Terzo settore”.

Proprio perché il punto di partenza è una definizione ineccepibile di cosa sia il terzo settore – non a caso a questo articolo ricorrono numerosi riferimenti, nel corso di tutto il testo – sarà forse utile porre ancora una volta attenzione alla formulazione utilizzata, da diversi punti di vista.

La definizione poggia su “quattro colonne”: le finalità solidaristiche e civiche, l’assenza di scopo di lucro e quindi la non distribuzione degli utili, il chiaro beneficio pubblico delle attività, l’utilità sociale indiscutibile dei settori in cui operare. La definizione è convincente a condizione di tener conto che, con la dizione “finalità solidaristiche e civiche” non si intende limitare il raggio dei settori di attività di utilità sociale e che quindi anche comparti quali ad esempio le attività sportive, culturali, di protezione civile, di recupero ambientale sono pienamente compatibili laddove rispettose delle succitate “quattro colonne.”

Il testo complessivo presenta alcune incertezze circa l’appartenenza a pieno titolo dell’impresa sociale al terzo settore. In alcuni passaggi, infatti, sembra che si vogliano disciplinare due tipi di soggetti distinti, per quanto contigui (ad es. l’articolo 9, comma 1, lettera g che si riferisce agli investimenti “degli enti di terzo settore e delle imprese sociali” quasi che si tratti di due diverse entità). Va quindi chiarito, sia nell’articolo 1 che nel testo complessivo, che le imprese sociali sono ricomprese entro la dizione “enti privati” e che esse fanno indiscutibilmente parte a pieno titolo del Terzo settore. Occorre cioè eliminare ogni dubbio sul fatto che le diverse previsioni che nel testo ricorrono e che sono indirizzate “agli enti di cui all’articolo 1” siano anche ad esse riferite, cosa peraltro che sembra evincersi bene nella stessa definizione, per la quale le organizzazioni di terzo settore operano anche attraverso la produzione e lo scambio di beni e servizi.

Per evitare aggiramenti della sostanza della norma, l’opportuna precisazione che esclude dal terzo settore “le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati e le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche” dovrebbe verosimilmente valere anche per enti strumentali ad esse collegati, quali ad esempio le fondazioni legate a partiti o a loro esponenti.

Articolo 2

IL FOCUS:  “ tra i principi richiamati sembrerebbe opportuno inserire il codice del dono come uno dei possibili principi ispiratori dell’azione; o, in alternativa, tale codice potrebbe essere richiamato in un punto ad hoc, a rimarcare come uno degli obiettivi della legge sia quello di sostenere, rafforzare e diffondere orientamenti e organizzazioni ispirati al dono”.

L’attuale formulazione presenta un disequilibrio tra quanto è riservato alle organizzazioni di terzo settore che promuovono solidarietà e partecipazione civica (l’art. 2, comma 1, lettera a, utilizza i termini “riconoscere e garantire”) e quanto si prevede per le organizzazioni a carattere imprenditoriale (per le quali si parla di “riconoscere e favorire”). La seconda locuzione, “riconoscere e favorire” sembra più adeguata – e quindi da riproporsi anche all’art. 2, comma 1, lettera a).

Nel comma 1, lettera a), tra i principi richiamati sembrerebbe opportuno inserire il codice del dono come uno dei possibili principi ispiratori dell’azione; o, in alternativa, tale codice potrebbe essere richiamato in un punto ad hoc, a rimarcare come uno degli obiettivi della legge sia quello di sostenere, rafforzare e diffondere orientamenti e organizzazioni ispirati al dono.

Inoltre, relativamente all’art. 2, comma 1, lettera b, si richiama quanto già prima enunciato in merito all’articolo 1: l’iniziativa economica privata indicata come meritevole di riconoscimento e sostegno è ora definita come impegnata a realizzare “la produzione o lo scambio di beni o servizi di utilità sociale o d’interesse generale”, mentre il solo settore di attività, per i motivi già delineati, non pare un criterio di per sé sufficiente: meglio quindi riferirsi ai beni o servizi di utilità sociale e con benefici di interesse generale – coerente, tra l’altro, con l’esito subito dopo correttamente enunciato di elevare i livelli di tutela dei diritti civili e sociali.

Si invita inoltre a ragionare sull’opportunità di inserire, tra i principi direttivi, una ulteriore lettera e) che porti ad evidenziare meglio le specifiche vocazioni delle diverse forme giuridiche del terzo settore, così da favorire l’adozione degli strumenti organizzativi più idonei rispetto agli scopi.

Articolo 3

IL FOCUS:  “Si propone inoltre di considerare, in una logica di semplificazione e di risparmio di costi e tempi, la possibilità di assegnare la procedura di riconoscimento della personalità giuridica delle associazioni e delle fondazioni ai notai, analogamente a quanto accade per le società di capitali”

E’ forse utile considerare l’inserimento – lì, dove avrebbe attinenza diretta, ma anche altrove, nel provvedimento – di previsioni relative alle fondazioni. Taluni tra gli sviluppi più interessanti degli ultimi anni riguardano infatti lo sviluppo dell’istituto della fondazione, soprattutto nella declinazione delle fondazioni di partecipazione e delle fondazioni di famiglia, per la protezione di soggetti deboli. Va dato atto che nulla osta allo svolgimento, da parte delle fondazioni e delle associazioni, di attività stabile e prevalente d’impresa – anche se non ritengono di assumere la forma dell’impresa sociale – e pertanto si applica la normativa dei libri V e VI del codice civile, a condizione che in ogni caso vi sia il divieto di distribuzione di utili.

Si esprimono inoltre dubbi sulla pregnanza del criterio del rapporto tra patrimonio netto e indebitamento come metro per misurare l’affidabilità delle organizzazioni.

Si propone inoltre di considerare, in una logica di semplificazione e di risparmio di costi e tempi, la possibilità di assegnare la procedura di riconoscimento della personalità giuridica delle associazioni e delle fondazioni ai notai, analogamente a quanto accade per le società di capitali. Oggi la competenza per il riconoscimento delle persone giuridiche spetta alle Prefetture, per gli enti che operano a livello nazionale, oppure alle Regioni, per gli enti che agiscono a livello regionale.  L’elemento di discrezionalità nel giudizio, soprattutto di congruità dello scopo rispetto all’entità del patrimonio, lascia spazio a scelte largamente difformi sia sul territorio che, nell’ambito del medesimo territorio, tra le autorità alternativamente competenti. Inoltre i tempi imposti per la chiusura del procedimento raramente sono osservati. Si aggiunga inoltre che i registri presso le Prefetture sono tenuti in forma cartacea e non sono pertanto consultabili, se non recandosi fisicamente nel luogo dove sono conservati. La soluzione suggerita potrebbe legarsi a quella prefigurata a proposito dell’articolo 4, di tenuta di un Registro delle persone giuridiche, costituita da un’apposita sezione del Registro delle imprese.

Articolo 4

IL FOCUS: “Rispetto tema delle modalità di relazione tra Enti pubblici e terzo settore, il testo, forse sull’onda dei fatti di cronaca, cita esclusivamente elementi orientati a contrastare eventuali opacità o casi di impiego di fondi pubblici non sufficientemente motivati. Questo è del tutto condivisibile, ma non deve far dimenticare il patrimonio di elaborazioni, nazionale e comunitario, ispirate al principio di cooperazione e collaborazione tra enti – pubblici e di terzo settore – che condividono le finalità di interesse generale”.   

Rispetto all’art. 4 al comma 1, lettera b, va nuovamente indicata l’opportunità di utilizzare locuzioni uniformi nel testo; si richiamano “attività solidaristiche e di interesse generale”, mentre meglio sarebbe attestarsi su una stessa espressione, che potrebbe appunto essere quella dei settori di utilità sociale – tra l’altro ben consolidata, a partire dal d.lgs 460/1997 nel nostro ordinamento – che, congiuntamente al conseguimento di un beneficio di interesse generale (pubblico o mutualistico) costituisce un tratto distintivo del terzo settore.

Circa il Registro unico di cui alla lettera i), dove l’attuale testo chiama in causa il Ministero del lavoro, è forse opportuno ricordare che oggi esiste un sistema, quello del registro delle imprese, che non comporta costi aggiuntivi e che tra l'altro è già collegato telematicamente con gli studi notarili. È quindi opportuno valutare la possibilità di iscrivere le imprese sociali entro un’apposita sezione del registro delle imprese, insieme agli enti commerciali non profit, nonché di usare il Registro degli enti e delle associazioni per gli enti senza personalità giuridica che non svolgono attività di impresa, con la possibilità che nel registro siano pubblicati tutti i dati salienti dell’organizzazione di terzo settore, quali cariche sociali, bilanci. È opportuno suggerire che il previsto Registro unico debba ricomprendere anche enti riconosciuti e enti regolamentati dalle leggi speciali (organizzazioni di volontariato, APS, cooperative sociali) per evitare che l’intento semplificatorio sia vanificato dalla sopravvivenza di registri paralleli. Sempre al fine di rendere meno onerosi gli aspetti burocratici potrebbe essere utile prevedere forme semplificate di iscrizione al Registro delle organizzazioni affiliate ad una organizzazione nazionale già iscritta. Infine, rispetto al Registro di cui alla lettera i), potrebbe essere utile richiamare, per maggiore chiarezza, le diverse forme giuridiche che sono comunque, sulla base dell’attuale assetto del terzo settore italiano, chiamate ad aderirvi, quali organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, cooperative sociale, fondazioni, organizzazioni non governative, società di mutuo soccorso, comitati, enti ecclesiastici. Si tratta quindi di capire come valorizzare tali possibilità con l’intento del Registro unico.

Rispetto alla lettera m) del medesimo comma, che affronta il tema delle modalità di relazione tra Enti pubblici e terzo settore, il testo, forse sull’onda dei fatti di cronaca, cita esclusivamente elementi orientati a contrastare eventuali opacità o casi di impiego di fondi pubblici non sufficientemente motivati. Questo è del tutto condivisibile, ma non deve far dimenticare il patrimonio di elaborazioni, nazionale e comunitario, ispirate al principio di cooperazione e collaborazione tra enti – pubblici e di terzo settore – che condividono le finalità di interesse generale. In ciò è possibile senz’altro valorizzare:

•                il patrimonio giuridico che, a partire dall’atto di indirizzo e coordinamento sui sistemi di affidamento dei servizi alla persona (DPCM 30/3/2011 applicativo della 328/2000), valorizza le forme basate sulla coprogettazione e sulla considerazione degli aspetti di qualità del servizio;

•                procedure sviluppate in questi anni sul livello locale, che, nel pieno e scrupoloso rispetto dell’evidenza pubblica, valorizzano i principio di cooperazione più che quello di competizione;

•                gli sviluppi della normativa comunitaria, che con la direttiva comunitaria 24/2014 dedica un capo apposito agli affidamenti di servizi sociali specificando che «Gli Stati membri sono liberi di determinare le norme procedurali applicabili fin¬ tantoché tali norme consentono alle amministrazioni aggiudica¬trici di prendere in considerazione le specificità dei servizi in questione.» (art. 76) E, in questo ambito  diventa possibile riservare servizi sanitari, sociali e culturali ad organizzazioni 1) non profit 2) finalizzate ad un interesse pubblico e 3) strutturate in modo da consentire la partecipazione allargata di lavoratori e/o utenti affidamenti nell’ambito dei servizi sociali (art. 77).

Va inoltre ricordato che una parte significativa delle criticità che coinvolgono organizzazioni di terzo settore riguarda il trattamento riservato a chi vi lavora, soprattutto laddove ciò avviene a seguito di affidamenti pubblici. Ciò è legato anche ad una pluralità di contratti in essere, alcuni dei quali presentano condizioni significativamente peggiorative che rischiano paradossalmente di favorire chi le adotta nella competizione di mercato. Ciò può essere contrastato, oltre che con procedure di affidamento che valorizzino adeguatamente gli aspetti di qualità, prevedendo l’applicazione di CCNL siglati con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative individuate nell’aver superato una soglia minima di rappresentatività stabilita negli accordi interconfederali e differenziata a seconda che si tratti di organizzazione sindacale singola o associata con altre.

Articolo 5

IL FOCUS: “è forse ragionevole valutare una riorganizzazione dei Centri di servizio del Volontariato che incida sulle attuali criticità, prefigurando soluzioni per le quali sia previsto” 

In merito all’art. 5, comma 1, lettera a) potrebbe essere opportuno introdurre, accanto alla opportuna valorizzazione dei “principi di gratuità, democraticità e partecipazione” e alle tutele dello status di volontario, previsioni normative che evitino l’utilizzo improprio di istituti quali il rimborso spese in accezioni di fatto non coerenti con tali principi.

Relativamente all’articolo 5, comma 1, lettera e) è forse ragionevole valutare una riorganizzazione dei Centri di servizio del Volontariato che incida sulle attuali criticità, prefigurando soluzioni per le quali sia previsto:

•                che i Centri di servizio assumano, come già specificato nel testo, una forma giuridica di terzo settore caratterizzata per un assetto democratico, siano liberamente costituiti ed operino, sulla base delle libere scelte delle organizzazioni che scelgono di avvalersi dei servizi offerti, anche su base non territoriale;

•                che i criteri di accreditamento comprendano un numero minimo di soggetti associati, il principio della porta aperta che renda possibile l’ingresso nella compagine associativa e nella governance delle organizzazioni che fruiscono dei servizi, un insieme di servizi standard che debba comunque essere messo a disposizione delle organizzazioni fruitrici, la presenza con proprie articolazioni sul territorio ove si propongono come erogatori di servizi;

•                criteri democratici per la definizione della governance (ad esempio escludendo o comunque limitando il voto multiplo degli aderenti sulla base delle dimensioni secondo una misura massima);

•                l’impossibilità, per ciascuna organizzazione, di associarsi a più di un centro di servizio;

•                l’incompatibilità, in entrata e in uscita, tra i ruoli apicali nei centri servizi e l’assunzione di cariche politiche, definendo un periodo minimo tra la cessazione di un ruolo e l’eventuale assunzione di un ruolo nell’altro ambito;

•                la delega ai Centri di servizio dei compiti di monitoraggio, verifica e controllo rispetto agli enti al di sotto di determinate dimensioni;

•                il dimensionamento di organi di controllo, destinati ad assumere anche i compiti e funzioni degli attuali CoGe, su scala regionale o, nelle regioni più piccole, macro regionale con governance partecipata a maggioranza dalle fondazioni finanziatrici, nonché da soggetti unitari di rappresentanza delle diverse forme di terzo settore;

•                l’attribuzione agli organi di controllo delle funzioni di accreditamento dei Centri di servizio nonché di concessione ai fruitori di voucher finalizzati al pagamento dei servizi presso i Centri di servizio accreditati sulla base della libera scelta delle organizzazioni fruitrici.

Articolo 6

IL FOCUS: “In riferimento ai criteri di distribuzione degli utili, pur apprezzando lo sforzo di sintesi realizzato nel testo della Camera, si suggerisce di valutare la possibilità di un testo più rigoroso, che eviti il rischio di interpretazioni estensive e alla fine poco rispondenti all’orientamento non profit del Terzo settore” 

Grazie alla più precisa indicazione da introdursi all’articolo 1, comma 1, è probabilmente ragionevole alleggerire la lettera a) del comma 1 dell’articolo 6, con la quale si intende qualificare l’impresa sociale, essendo essa già definita come entità di terzo settore (con le caratteristiche quindi richiamate all’articolo 1, comma 1 e rispettosa dei principi e dei criteri dettagliatamente sviluppati all’art. 4) che, condividendo le finalità di interesse generale delle altre organizzazioni comprese nell’articolo 1, trova la sua specificità nel perseguirle attraverso strumenti imprenditoriali. Appare dunque da valutare l’indicazione, peraltro addirittura in posizione preminente, di un criterio come l’impatto sociale che ha natura diversa – non definitoria ma concernente l’effettivo prodotto realizzato – e che giustamente trova il proprio dominio nel successivo articolo 7, relativo al monitoraggio delle attività degli enti.

In ogni caso – qui e altrove – sembra opportuno porre attenzioni a tutte quelle locuzioni (es. il “raggiungimento di obiettivi sociali”) che hanno forse un significato evocativo, ma che appaiono di dubbia pregnanza normativa, mentre sono da privilegiare riferimenti (es. “coerentemente con lo scopo individuato dagli statuti sociali”) rispetto a cui sia possibile in sede di controllo operare effettive verifiche. A questo proposito, comunque, va ricordato come la definizione presente del D.Lgs 155/2006 appaia chiara ed esauriente e che quindi gli interventi su tali aspetti debbono essere introdotti con molta attenzione per evitare il rischio di introdurre elementi di complessità e confusione.

In riferimento ai criteri di distribuzione degli utili, pur apprezzando lo sforzo di sintesi realizzato nel testo della Camera, si suggerisce di valutare la possibilità di un testo più rigoroso, che eviti il rischio di interpretazioni estensive e alla fine poco rispondenti all’orientamento non profit del terzo settore. Si ipotizza pertanto la possibilità di un testo alternativo quale il seguente: “previsione di forme di remunerazione del capitale sociale e di ripartizione degli utili, da assoggettare alle condizioni e ai limiti massimi applicati alle cooperative a mutualità prevalente e che assicurino comunque la prevalente destinazione degli utili a una riserva indivisibile, da destinare integralmente, in caso di scioglimento, ad altre organizzazioni di terzo settore con finalità coerenti con lo scopo dell’impresa sociale”.

L’opinione del relatore è che questa seconda formulazione sia preferibile; laddove invece si intendesse optare per il mantenimento dell’attuale testo, aprendo quindi alla possibilità ad un sorta di low profit, occorrerà a quel punto escludere tali soggetti da talune forme di premialità quali la detraibilità e deducibilità in caso di erogazioni liberali o l’accesso al 5X1000.

Relativamente alla lettera b), anche in considerazione della rapida evoluzione, in relazioni ai mutevoli bisogni sociali, dei settori di attività dove può esplicarsi la realizzazione di un beneficio di interesse generale, sembra opportuno introdurre la possibilità di intervenire su questi aspetti, oltre che in sede di legge, come qui opportunamente avviene, anche con autonoma decretazione del Governo, sulla base di un’analisi da compiersi periodicamente anche di concerto con le rappresentanze del terzo settore. Inoltre, sempre alla medesima lettera, sembra ragionevole qualificare i “limiti per lo svolgimento di attività commerciali diverse da quelle di utilità sociale” in senso chiaramente minoritario (oltre, come sempre, a specificare il criterio del beneficio di interesse generale congiuntamente al settore di attività come qualificante delle azioni propriamente svolte dalle imprese sociali).

Articolo 7

IL FOCUS: “ l’equilibrio tra l’intento di introdurre controlli più efficaci, necessari e evitare opacità e abusi e l’intento di semplificare l’azione di chi opera a vantaggio della comunità senza gravarlo ulteriormente di appesantimenti formali può essere trovato solo mutando la natura dei controlli stessi. in ottica di deburocratizzazione e di orientamento verso aspetti sostanziali”.

Nel corso del dibattito presso la Camera dei Deputati, si è a lungo esaminata la soluzione più opportuna circa il soggetto cui mettere in capo il controllo e monitoraggio degli enti di terzo settore. Da una parte appare opportuno non riaprire da principio tale dibattito, dando per acquisito che tali funzioni vadano poste in capo al Ministero del Lavoro e delle politiche sociali; dall’altra vanno raccolte le preoccupazioni circa la necessità che una funzione di questa delicatezza – il “separare il grano dal loglio” è uno dei principi sin dall’inizio posti alla base del provvedimento – possa essere realizzata adeguatamente senza risorse dedicate. L’articolato sottoposto all’esame del Senato presenta infatti, rispetto a quello inizialmente elaborato dal Governo, numerosi e condivisibili riferimenti alla necessità di presidiare il settore con adeguati controlli e monitoraggi, ma questo rischia di rimanere mera enunciazione di principio in assenza di specifiche risorse. 

Sembra inoltre opportuno puntualizzare due principi generali che orientino la decretazione in merito ai controlli.

Il primo è che l’equilibrio tra l’intento di introdurre controlli più efficaci, necessari e evitare opacità e abusi e l’intento di semplificare l’azione di chi opera a vantaggio della comunità senza gravarlo ulteriormente di appesantimenti formali può essere trovato solo mutando la natura dei controlli stessi. in ottica di deburocratizzazione e di orientamento verso aspetti sostanziali.

Il secondo è esplicitare e sistematizzare meglio una graduazione – comunque cui già l’attuale testo fa riferimento – dei meccanismi di controllo sulla base di dei seguenti elementi:

•                dimensione degli enti;

•                ricorso o meno degli enti a forme di finanziamento pubblico o a raccolte di risorse basate sulla fede pubblica;

•                assunzione o meno degli enti di caratteristiche di impresa.

Ragionare in questi termini permetterebbe di graduare l’intensità dei controlli su criteri minimi che non guardino alla forma giuridica ma alla sostanzialità dell’azione delle organizzazioni e al ricorso ad elementi che chiamino in causa la fiducia di terzi o delle istituzioni.

Articolo 8

IL FOCUS: “Rispetto al servizio civile da prevedere la definizione del riparto di funzioni tra istituzioni statali e regionali, mediante l’attribuzione agli organi centrali dello Stato della competenza a definire le attività di programmazione e organizzazione del servizio civile universale, in cui sono coinvolti gli enti territoriali nonché gli enti pubblici e privati senza scopo di lucro”

Al comma 1, lettera a), dell’articolo 8 è affidato il compito di sintetizzare i concetti legati alla difesa non armata della Patria, eredità della stagione nascente del servizio civile come alternativa al servizio militare e gli ideali di promozione dei valori fondativi della nostra Repubblica. Probabilmente l’attuale formulazione non coglie ancora nel modo migliore questi diversi aspetti e pare quindi suggeribile individuare una locuzione che, lasciando inalterati i riferimenti costituzionali opportunamente richiamati, definisca il servizio civile universale come finalizzato alla difesa non armata della patria e alla promozione dei valori fondativi della Repubblica.

Alla lettera d) del medesimo comma si suggerisce di bilanciare il riferimento agli enti territoriali con un maggiore coinvolgimento dello Stato, al fine di assicurare maggiore omogeneità del Servizio civile ed evitare talune controindicazioni connesse a fenomeni di regionalizzazione, anche in coerenza con gli orientamenti che si stanno affermando in altri ambiti delle politiche del lavoro. Il punto potrebbe essere quindi elaborato prevedendo la definizione, nel rispetto del principio di leale collaborazione, del riparto di funzioni tra istituzioni statali e regionali, mediante l’attribuzione agli organi centrali dello Stato della competenza a definire le attività di programmazione e organizzazione del servizio civile universale, in cui sono coinvolti gli enti territoriali nonché gli enti pubblici e privati senza scopo di lucro.

Articolo 9

IL FOCUS:  “Va compiuta una riflessione sull’opportunità di mantenere a fini fiscali un concetto, come quello di “ente non commerciale”, che si sovrappone all’impianto definitorio già presente nella normativa, che ha invece intenti semplificatori”.

In generale, va compiuta una riflessione sull’opportunità di mantenere a fini fiscali un concetto, come quello di “ente non commerciale”, che si sovrappone all’impianto definitorio già presente nella normativa, che ha invece intenti semplificatori. Si propone quindi di non confermare ulteriori definizioni basate sullo svolgimento o meno di attività a rilevanza economica, incoerenti sia con l’impianto del provvedimento, sia con la realtà attuale. Ad esempio le cooperative sociali, che svolgono attività economica, sono già destinatarie delle misure qui riservate agli enti non commerciali. Meglio invece rifarsi alle definizioni già presenti nella legge rispetto alle organizzazioni di terzo settore, piuttosto graduando i benefici riscuotibili sulla base delle scelte dell’organizzazione in materia di destinazione degli utili. Ciò porterebbe quindi al superamento della definizione di ente non commerciale con il passaggio ad un regime fiscale che riconosca l’esercizio dell’attività commerciale per finalità di interesse generale senza scopo di lucro, come già avviene per le cooperative sociali.

A questo proposito, si considerino nell’articolo 9, al comma 1, le previsioni delle lettere a, b, c, d, i e ed l che sono riferite agli enti di cui all’articolo 1, cioè, opportunamente, a tutti gli enti di terzo settore. Va d’altra parte richiamato come all’articolo 6, comma 1, lettera d), sia stata introdotta una disciplina degli utili dell’impresa sociale molto flessibile, cosi da dare conto non solo di fenomeni consolidati come la cooperazione sociale, ma anche di altre forme che potrebbero giovarsi di regimi più premianti per chi apporta capitali. Il riferimento analogico a quanto previsto per le cooperative a mutualità prevalente in materia di quota di utili remunerabili e di tasso di remunerazione è per questo reso differenziabile “in base alla forma giuridica adottata dall’impresa”. Questo, d’altra parte, porta a suggerire di prevedere, per gli enti che, avvalendosi di tale flessibilità, vogliano prevedere statutariamente la possibilità di forme di distribuzione degli utili più premianti per l’investitore rispetto alle cooperative a mutualità prevalente, l’impossibilità di accedere ai benefici fiscali richiamati in tali lettere. Tali soggetti rimarrebbero comunque destinatari delle misure previste alla lettera f) g) h).

Relativamente all’art. 9, comma 1, lettera c), il condivisibile richiamo alla riforma strutturale del 5X1000 va completato con una specificazione circa l’opportunità che gli importi destinati al terzo settore non siano dispersi su altre finalità – pur altrettanto meritorie, quali la destinazione ad enti locali o servizi pubblici – che meritano risorse opportunamente dedicate (magari con meccanismi analoghi al 5X1000) e non in competizione con quanto assicurato al terzo settore.

Infine, correttamente, alla lettera f), sono previste misure a sostegno di alcune funzioni specifiche connesse all’azione delle imprese sociali, a rafforzamento della vocazione di queste organizzazioni e investire con finalità sociali e ad innovare. Un altro ambito rispetto al quale potrebbe essere utile prevedere strumenti specifici è relativo ad azioni per favorire l’ingresso entro le imprese sociali di lavoratori che svolgono funzioni a basso contenuto professionale e a bassa tutela, segnatamente nell’area dell’assistenza familiare, riducendo il loro impiego a titolo individuale o attraverso prestazioni di lavoro in somministrazione.

Articolo 10

IL FOCUS:  “Si suggerisce un’ulteriore destinazione, relativa alla ristrutturazione di beni pubblici o confiscati e dati in gestione a soggetti di terzo settore e prevedendo a tale proposito forme di premialità laddove l’organizzazione di terzo settore sia in grado di garantire co-investimenti da parte di soggetti diversi”

L’attuale formulazione potrebbe forse essere rafforzata prevedendo, accanto alle risorse già citate, anche fondi ulteriori ministeriali, a integrazione dei fondi rotativi previsti all’articolo 9, comma 1, lettera g), destinandoli in particolare al finanziamento, in parte rotativo in parte a fondo perduto. Si suggerisce un’ulteriore destinazione, relativa alla ristrutturazione di beni pubblici o confiscati e dati in gestione a soggetti di terzo settore e prevedendo a tale proposito forme di premialità laddove l’organizzazione di terzo settore sia in grado di garantire co-investimenti da parte di soggetti diversi.

Tra le modalità di sostegno al terzo settore, richiamando quanto affermato all’art. 4, comma 1, lettera m), (“prevedere strumenti che favoriscano i processi aggregativi, … di enti con finalità statutarie affini, anche allo scopo di definire la loro rappresentatività presso i soggetti istituzionali”) e dall’articolo 5, comma 1, lettera d) (“riconoscimento e valorizzazione delle reti associative di secondo livello, intese quali associazioni composte da enti del Terzo settore…”) parrebbe opportuno dare concretezza a tale affermazione con una seppur minima forma di sostegno economico ad organismi ampiamente rappresentativi delle diverse forme di terzo settore.

Infine si suggerisce di destinare una piccola parte della dotazione prevista allo svolgimento delle attività di controllo e autocontrollo previste dall’art. 7.

 

 

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