Economia
Riforma Terzo Settore, quanti malintesi sull’impresa sociale
Domani in Aula riprende il dibattito. L'intervento del presidente di Make a Change, Andrea Rapaccini, sul punto più controverso
Dopo la parte più nostalgica del PD, gli esponenti SEL, anche i Popolari si sono schierati compatti contro la Riforma del Terzo Settore. Il pomo della discordia? L’impresa sociale, questa sconosciuta. Sì, perché a distanza di 9 anni dall’entrata in vigore di una normativa sull’impresa sociale (Legge 155/2006) che non ha lasciato indelebili ricordi nella mente di nessuno, oggi molti parlamentari sembrano magneticamente attratti da quella sezione, che secondo alcuni consentirebbe “per la prima volta” la distribuzione degli utili e quindi la remunerazione del capitale ad organizzazioni appartenenti al terzo settore.
Se da un lato troviamo senz’altro positiva questa improvvisa attenzione all’impresa sociale da parte della politica dopo anni di totale indifferenza, dall’altro il modo con cui alcuni parlamentari se ne stanno occupando è per alcuni versi imbarazzante e per altri ipocrita.
Ma andiamo per ordine. Cosa intendiamo quando parliamo di impresa sociale?
L’impresa sociale è un’organizzazione imprenditoriale di qualsiasi forma e natura giuridica, che ha per statuto una missione di miglioramento sociale / ambientale e che per raggiungerla non si basa principalmente su sovvenzioni pubbliche e beneficenza, bensì svolge un'attività commerciale sul mercato come una qualsiasi impresa for profit. A differenza di un’impresa tradizionale, però, il profitto generato dall’attività commerciale non rappresenta il fine ultimo, ma viene gestito ed utilizzato come mezzo per rendere autosufficiente l’impresa stessa. L’innovazione rilevante che contiene il concetto di impresa sociale è quindi l’affermazione di un principio tanto semplice quanto importante: anche un’impresa (e non solo una onlus) può operare nell’interesse generale (quindi dei molti) e non a vantaggio dei soli soci che hanno investito capitale (i pochi). Dunque anche un’impresa privata che si struttura intorno ad uno specifico modello valoriale e giuridico può essere strumento di miglioramento sociale e di distribuzione equa della ricchezza.
Per tali considerazioni l’economia sociale (popolata dalle imprese sociali) dovrebbe essere considerata più come una sorta di “quarto settore”, che come parte del terzo settore tradizionale. Una risposta agli eccessi del neo liberismo di matrice calvinista che ci ha pervaso negli ultimi 20 anni e alla cronica scarsità di risorse economiche dello Stato e del non profit per far fronte alle future necessità delle economie occidentali. La gestione di beni di comunità, dei servizi pubblici locali, l’istruzione, la valorizzazione del patrimonio culturale, la green economy, lo sviluppo del secondo welfare, sono tutte grandi aree di bisogno sociale e al contempo nuove sfide di mercato che potranno sfuggire alla speculazione e alla privatizzazione selvaggia se e solo se saranno gestite con un modello alternativo al capitalismo di questi ultimi anni. Su questa nuova classe di investimenti potrebbero essere indirizzati parte dei capitali di investitori pazienti come ad esempio fondi pensione, fondi infrastrutturali, assicurazioni, imprenditori responsabili del territorio e gli stessi cittadini, attraverso nuove forme di partecipazione (es. social bond, crowdfunding)
L’impresa sociale così concepita si pone quindi come modello alternativo al capitalismo neo-liberista, l’unico modello economico che ci hanno insegnato ed i cui eccessi hanno portato alle storture che tutti consociamo. Apre ad una nuova forma di economia, l’’economia civile, l’economia nell’interesse delle persone. Su questo nuovo modello il Ministro Maduro ci intende costruire lo sviluppo dei prossimi anni del suo Portogallo, la Francia ha dedicato uno specifico ministero per l’economia sociale e solidale, nel Regno Unito sono già attive oltre 10.000 CIC company (Imprese di interesse comune). La stessa cooperazione internazionale sta modificando il proprio approccio, spostando il focus dei propri interventi da quegli aiuti e donazioni umanitarie di tipo caritatevole che vanno assottigliandosi sempre di più e che producono risultati di breve periodo, alla costituzione di vere imprese sociali, che producono occupazione, autosufficienza e sviluppo di lungo periodo nei paesi dall’economia più arretrata.
Rispetto a tale nuova opportunità per il nostro Paese, le osservazioni di molti detrattori della riforma sull’impresa sociale sono imbarazzanti: “Utili… Capitale… nel Terzo Settore? Ci mancava solo la finanza nel non profit. E il carattere mutualistico? E la tradizione del volontariato? La cultura del dono senza secondi fini? Insomma: via il profit dal non profit!” Ed a giustificazione di questa posizione, molti oppositori alla riforma citano, mettendoci pure il carico da novanta, lo scandalo Mafia Capitale. “Questi sono i rischi, se vogliamo portare il profitto e la remunerazione del capitale nel terzo settore!”
Queste posizioni, tanto suggestive quanto superficiali, stravolgono la realtà dei fatti e non possono che essere figlie di tre vulnus: 1) una scarsa preparazione sull’argomento, 2) un forte pregiudizio ideologico sul ruolo del capitale; 3) la volontà di difendere aree di potere politico e personale, che fanno riferimento soprattutto al mondo della cooperazione. In alcuni casi non si esclude nemmeno un mix dei tre.
- Una scarsa preparazione sull’argomento. Alcuni continuano a fare una grande confusione tra “no profit” e “non profit” e spesso utilizzano i termini in maniera intercambiabile, quando invece si tratta di una maldestra traduzione dall'inglese. “No profit”, ovvero “nessun profitto”, tende a rappresentare quelle organizzazioni del terzo settore che non svolgono alcuna attività di mercato, quelle organizzazioni che, per essere efficaci nelle soluzioni che propongono, necessitano del dono e del tempo altrui in forma gratuita, e che oggi soffrono di più per la mancanza di risorse. A questa categoria appartengono gran parte delle onlus e delle organizzazioni di volontariato, che rappresentano un patrimonio di valore sociale inestimabile per il nostro Paese e che non sono toccate in maniera alcuna dalla riforma attuale. Il “non profit”, invece deriva da “not for profit” (traducibile più correttamente con “non a fini di lucro”) e rappresenta invece quelle organizzazioni che possono anche svolgere un’attività sul mercato per fini sociali grazie alla quale producono un profitto indirizzato principalmente, se non esclusivamente, a sostenere la missione non lucrativa. Queste ultime rappresentano circa il 50% dei soggetti operanti nel terzo settore italiano e sono le uniche a crescere ed a creare occupazione in modo sostenibile.
- Un forte pregiudizio ideologico sul ruolo del capitale. La legge attuale prevede il vincolo assoluto alla remunerazione degli investimenti per le imprese sociali, mentre consente di remunerare i finanziamenti come per qualsiasi attività profit. La normativa attuale, infatti, che non prevede alcuna possibilità di distribuzione degli utili per gli investitori (nemmeno per coprire il tasso d’inflazione), consente però la remunerazione dei debiti, con un unico vincolo rappresentato dal tasso soglia d’usura (oggi al 21% annuo, per prestiti senza garanzie). In altre parole se oggi finanzio un’impresa sociale SRL per 10 anni con 100.000 euro, a fine periodo posso teoricamente ricavarne più di 500.000; se invece investo nel capitale della stessa impresa lo stesso ammontare di denaro, dopo 10 anni posso avere indietro al massimo gli stessi 100.000 Euro, che naturalmente avranno perso valore reale. Insomma se rischio, investo e mi impegno per il sociale è garantito che ci perdo, mentre se ci voglio speculare finanziandolo, posso guadagnarci ed anche molto bene, e infatti molte banche fanno così. Ed è bene ripeterlo: questo può avvenire già oggi, per legge, secondo la normativa vigente sulle imprese sociali, soddisfacendo gli operatori finanziari e gli istituti di credito che finanziano il terzo settore
- La volontà di difendere aree di potere politico e personale. Oggi le cooperative sociali sono “imprese sociali de facto” e possono non solo realizzare un profitto, ma anche distribuire i dividendi, remunerando quindi il capitale investito, senza venir meno alla loro natura “not for profit”. Alcune delle cooperative sociali operano come una sorta di braccio operativo delle Amministrazioni Locali e quindi intermediano risorse pubbliche (le cooperative sociali di Mafia Capitale rientravano in questo primo gruppo), al contrario un’altra parte delle cooperative sociali opera sul libero mercato, offrendo prodotti e servizi a privati e aziende in regime di concorrenza. A tutte le cooperative è oggi consentita la distribuzione dei dividendi, pur con alcune limitazioni legate alla tipologia di socio: ai i soci cooperatori, è possibile distribuire dividendi in misura non superiore all’ interesse massimo dei buoni fruttiferi postali (BFP) + uno spread di 2,5 punti % rispetto al capitale investito, ai soci sovventori è possibile arrivare ad uno spread di 4,5 punti, ai soci finanziatori addirittura non è previsto alcun vincolo alla remunerazione del capitale. Ebbene, coloro i quali si oppongono al profitto e la distribuzione degli utili nel terzo settore, dovrebbero per coerenza chiedere di espellere tutte le cooperative sociali dal terzo settore stesso. La realtà è che in Italia il mondo della cooperazione sociale fa riferimento a due grandi aree politiche: a sinistra la Lega delle Cooperative e al centro Confcooperative, l’anima più cattolica. Non sorprende quindi che proprio i partiti che fanno riferimento a questi due mondi si schierino contro qualsiasi modifica allo status quo e si guardano bene da affrontare i problemi del profitto e della distribuzione degli utili quando le imprese sociali assumono la forma di cooperativa. Sorprendono invece di più le posizioni di alcuni esponenti del movimento dei 5 Stelle che non dovrebbero difendere alcun interesse specifico, né a detta di loro, arroccarsi su posizioni di natura ideologica.
La riforma dell’impresa sociale in discussione alla Camera intende correggere queste storture, dando sostanza e trasparenza ad un nuovo modello giuridico d’impresa e favorire lo sviluppo di una nuova forma d’imprenditoria (l’imprenditoria sociale) consentendo l’ingresso di nuovi capitali pazienti nel terzo settore. Ciononostante le modifiche della legge delega più contrastate risultano essere due:
- La possibilità di remunerare il capitale delle imprese sociali indipendentemente dalla forma giuridica, anche posizionandosi sui vincoli più stringenti già oggi consentiti ai soci delle cooperative sociali
- L’ obbligatorietà dell’iscrizione come “impresa sociale” per tutte quelle organizzazioni del terzo settore che svolgono un’attività commerciale in modo prevalente, al fine di costringere le organizzazioni stesse all’interno di un maggiore sistema di controlli. L’obiettivo è proprio di fare trasparenza e rendere più difficili i meccanismi incestuosi tra pubblico e non profit che rischiano di produrre malagestio e corruzione.
In Italia esistono migliaia di imprenditori sociali (molti di loro cooperatori) che non hanno alcuna intenzione di avere l’amministrazione pubblica come unico cliente, che non basano la loro sostenibilità sulle donazioni, che vogliono remunerare correttamente i lavoratori e che intendono impegnarsi per promuovere un modello di economia più equo. Le modifiche proposte dalla legge delega in discussione alla Camera, pur imperfette, non saranno certamente sufficienti per creare questa nuova economia (soprattutto se non saranno seguite da politiche governative a supporto), ma potranno costituire comunque un piccolo passo avanti verso questa direzione e favorire questa nuova forma di imprenditoria.
Le forze politiche che si oppongo alla riforma dell’impresa sociale sostengono un modello obsoleto che ancora divide il mondo tra Stato e Mercato e tra soggetti giuridici “buoni” e soggetti giuridici “cattivi”; se avranno successo nel loro ostruzionismo, saranno responsabili di tenere in piedi un sistema dove proprio i casi come Mafia Capitale potranno più facilmente agire indisturbati all’interno del terzo settore o dove Fondazioni che nascono con “alti” scopi socio-culturali potranno operare con attività che poco hanno a che vedere con gli stessi.
L’Italia è un Paese strano, dove la corruzione è pronta ad inserirsi in ogni dove; ed anche a fronte di iniziative che promuovono modelli più trasparenti e meno permeabili c’è sempre una parte della politica ignorante e populista che le fa, nel migliore dei casi, inconsapevolmente, da sponda.
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