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Corte Costituzionale: le leggi no slot non si toccano
Con la sentenza n. 56 del 2015 per la prima volta in Italia si è chiarito che il legislatore può intervenire in maniera peggiorativa, «anche su posizioni consolidate» perché più degli incassi dell’azzardo legalizzato vale la tutela dei consumatori. Stoppati i Tar e il Consiglio di Stato
«La questione è sorta nel corso del giudizio d’appello avverso la sentenza pronunciata il 22 dicembre 2011 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, adito dalla società B Plus Giocolegale ltd», spiega la sentenza n. 56 del 2015, della Corte Costituzionale. La società aveva ricorso «per ottenere, con un primo ricorso, l’annullamento del decreto interdirigenziale 28 giugno 2011 del direttore dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato (d’ora in avanti, «AAMS»), recante la determinazione dei requisiti delle società concessionarie del gioco pubblico non a distanza e dei loro amministratori, e per ottenere, con un secondo ricorso per motivi aggiunti, l’annullamento del bando di gara indetto dalla AAMS per l’affidamento in concessione della realizzazione e conduzione della rete per la gestione telematica del gioco lecito, mediante apparecchi da divertimento e intrattenimento, compresi il capitolato d’oneri, il capitolato tecnico, lo schema di convenzione e l’atto di approvazione di quest’ultimo».
Ma la Corte Costituzionale non ha dubbi è spiega, nero su bianco: «Nel merito , ricostruito il complesso quadro normativo, ha osservato che l’attuale disciplina delle concessioni per la raccolta e gestione del gioco lecito è improntata alla tutela di rilevanti interessi pubblici, indicati nel comma 77 dell’art. 1 della legge n. 220 del 2010 (la garanzia di trasparenza, la pubblica fede, l’ordine pubblico e la sicurezza, la salute dei giocatori, la protezione dei minori e delle fasce di giocatori adulti più deboli, la protezione degli interessi erariali circa i proventi del gioco ed il contrasto alle infiltrazioni della criminalità organizzata), che giustificano un più severo ed attento regime di controlli dei soggetti i quali eseguono tali attività per conto dello Stato, anche con riguardo ai requisiti soggettivi e patrimoniali che devono possedere. Le norme denunciate, pertanto, non violano gli artt. 3 e 41 Cost. e rispettano anche i principi comunitari in tema di parità di trattamento e di libertà d’impresa, perché i nuovi requisiti, che restringono l’accesso alle attività in concessione, sono richiesti in eguale misura a tutti i soggetti selezionati o da selezionare; rispetto al quale non si ispira, invece, la tesi accolta dal giudice a quo, secondo cui la ricorrente ha diritto a proseguire la concessione per altri nove anni, senza procedura selettiva aperta. L’intervenuto esclude altresì il contrasto con l’art. 42 Cost., per la mancata previsione normativa di un indennizzo per i sacrifici imposti al concessionario dai nuovi obblighi contrattuali, rilevando che gli investimenti compiuti nel corso della concessione scaduta nel 2009 devono considerarsi già ammortizzati e che quelli diretti ad acquisire le autorizzazioni ad installare i videoterminali “sono divenuti liberamente commerciabili dall’avente diritto anche prima ed indipendentemente dal rilascio di una nuova concessione o proroga”. Infine, le norme denunciate non determinano l’applicazione retroattiva alle concessioni in corso di clausole contrattuali più severe, come ha sostenuto il giudice a quo, bensì prescrivono l’adeguamento alla disciplina sopravvenuta delle concessioni nuove, prorogate o rinnovate, sulla base di atti integrativi volontari. In ogni caso, anche qualora si trattasse di applicazione retroattiva, la questione sarebbe infondata, perché secondo la giurisprudenza costituzionale l’assetto di preesistenti rapporti giuridici può essere legittimamente alterato da una norma sopravvenuta in presenza di interessi generali, sempre che il loro contemperamento con il contrapposto principio di affidamento sia improntato a criteri di ragionevolezza. Sotto tale aspetto, le norme denunciate sembrano sorrette da adeguata ragione giustificatrice, avendo prescritto anche per i soggetti già concessionari il possesso di determinati requisiti per l’esercizio dell’attività imprenditoriale nel settore dei giochi, al fine di conseguire specifici e ragionevoli obiettivi, funzionali alla realizzazione degli interessi generali indicati nelle norme denunciate».
La Corte a anche sottolineato come «non esiste violazione dei parametri evocati, sottolineando la ragionevolezza delle modifiche contrattuali introdotte dalle norme denunciate, anche a volerne ammettere la maggiore onerosità per il concessionario (in analogia con quanto si è verificato, previo superamento del vaglio comunitario, nel simmetrico settore delle concessioni autostradali), al fine di perseguire primari interessi di tutela dell’ordine pubblico e del consumatore, nonché di prevenzione delle frodi e delle infiltrazioni criminali, cui si è ispirata anche la legislazione successiva, che ha inasprito i requisiti di onorabilità a carico dei rappresentanti legali delle società concessionarie e di tutti i soggetti che partecipano direttamente o indirettamente al loro capitale, con quote superiori al 2 per cento (art. 24, commi 24, 25 e 26, del d.l. n. 98 del 2011)».
La sentenza dunque stabilisce che «interessi pubblici sopravvenuti possono esigere interventi normativi diretti a incidere peggiorativamente anche su posizioni consolidate, con l’unico limite della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti. Con la conseguenza che «non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti», unica condizione essendo «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto (sentenze n. 302 del 2010, n. 236 e n. 206 del 2009)» (ex plurimis, ordinanza n. 31 del 2011). A maggior ragione ciò vale per rapporti di concessione di servizio pubblico, come quelli investiti dalle norme censurate, nei quali, alle menzionate condizioni, la possibilità di un intervento pubblico modificativo delle condizioni originarie è da considerare in qualche modo connaturata al rapporto fin dal suo instaurarsi. E ancor più, si può aggiungere, ciò deve essere vero, allorché si verta in un ambito così delicato come quello dei giochi pubblici, nel quale i valori e gli interessi coinvolti appaiono meritevoli di speciale e continua attenzione da parte del legislatore.
Proprio in ragione dell’esigenza di garantire un livello di tutela dei consumatori particolarmente elevato e di padroneggiare i rischi connessi a questo settore, la giurisprudenza europea ha ritenuto legittime restrizioni all’attività (anche contrattuale) di organizzazione e gestione dei giochi pubblici affidati in concessione, purché ispirate da motivi imperativi di interesse generale, quali sono certamente quelli evocati dall’art. 1, comma 77, della legge n. 220 del 2010 (contrasto della diffusione del gioco irregolare o illegale in Italia; tutela della sicurezza, dell’ordine pubblico e dei consumatori, specie minori d’età; lotta contro le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore), e a condizione che esse siano proporzionate (sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, 30 giugno 2011, in causa C-212/08)».
La sentenza in verisone integrale è scaricabile in allegato
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