Volontariato

I 50 anni della Zancan: «L’ora del Welfare generativo»

Al via la due giorni che celebra il mezzo secoollo della Fondazione. Su Vita magazine in edicola da venerdì l'intervento del direttore Tiziano Vecchiato che sulla riforma del Terzo settore proposta da Renzi dice: «Vanno cambiati i paradigmi del rapporto fra PA e non profit, il premier sia più coraggioso»

di Tiziano Vecchiato

Nel giorno in chi la Fondazione Zancan celebra i suoi 50 anni, in anteprima una sintesi dell'intervento che il direttore Tiziano Vecchiato firma sul numero di Vita magazine in edicola da venerdì che dedica il servizio di copertina alla riforma Renzi.

È stato giusto vent’anni fa chiedere e dare un vantaggio competitivo ai soggetti non profit, con soluzioni giuridiche che hanno consentito che si sviluppassero e fortificassero nuovi modi di produrre valore economico e sociale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Sono positivi e, proprio per questo, da riformare per liberare ulteriori potenzialità. Ma deve essere un’operazione che allarga il sistema delle responsabilità sociali, senza squilibrarle con deleghe improprie. Ne ha estremo bisogno una società in forte deficit di fiducia e in recessione di umanità, sempre più incapace di fare dei bisogni umani un’area di investimento e sviluppo sociale solidale. La riforma deve essere occasione per moltiplicare il corrispettivo sociale degli investimenti, potenziando il dividendo da mettere a bene comune, con soluzioni di welfare generativo. Il punto di sfida è proprio qui. Non è però solo “compito” del terzo settore. Le istituzioni sono enti no-profit a cui dobbiamo chiedere molto di più e “a totale profitto sociale”, mentre anche imprese profit si stanno chiedendo se non convenga investire in soluzioni a profitto variabile, provato e sociale, accettando di remunerare anche la committenza di solidarietà espressa dal territorio.

Al centro della riforma non dovrebbe quindi esserci “il terzo settore”, ma le condizioni di produzione di beni comuni e, più in specifico, il contributo che il terzo settore può dare con condizioni giuridiche e strategiche rinnovate. Si alzerebbe in questo modo l’asticella per tutti, così che i soggetti non profit possano affrontare le nuove sfide dell’innovazione sociale.

Ma come potrebbe avvenire? Valorizzando il “capitale di connessione”, come asset strategico dello sviluppo, rendendo possibili nuove forme di rapporto tra soggetti di terzo settore, istituzioni e soggetti produttivi. Le valutazioni di impatto sociale, le verifiche di ritorno sociale degli investimenti, con metriche adeguate, possono diventare titolo di credito preventivo per erogare servizi alle persone e alle famiglie, con risorse integrate. Si potrebbero così evitare le gare basate sul ribasso e la breve durata, mentre abbiamo bisogno di massimo rialzo del rendimento e del valore generato. Potremmo così rottamare molte pratiche di welfare degenerativo. Se non lo faremo, molti enti pubblici e privati a finanziamento pubblico continueranno a redistribuire risorse in modo irresponsabile, senza farle rendere, senza rigenerare valore, con il concorso al risultato (anche) degli aiutati.

Per questo la riforma deve mettere in condizione il non profit di non funzionare più come protesi pubblica gestita a costi amministrati, senza investire e garantire adeguato rendimento al capitale sociale. Possiamo inoltre aspettarci nuove forme di socialità, più solidali. I soggetti non profit hanno saputo inventarle e legittimarle negli ultimi 20 anni per farne condizioni generative di ulteriore valore. Ma un primo problema è come metterlo a bilancio. Un secondo è come chiudere amministrazioni a costo e senza rendimento. Un terzo è, ancora più ambizioso, è come scoraggiare e penalizzare le pratiche degenerative. Troppe azioni pubbliche sono entropiche, consumano di più di quello che rendono, agiscono “a responsabilità limitata”. È un effetto perverso che poi si scarica nelle contrattualizzazioni tra pubblico e di terzo settore.

La riforma può ripartire da queste domande, senza accettare “vantaggi di breve periodo” che penalizzerebbero non solo il terzo settore ma l’incontro delle responsabilità necessario per ricostruire il senso, il valore e la bellezza del bene comune.

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