Non profit

Rapporto Istat, ma l’azzardo è consumo culturale!?

Una domanda poniamo ai responsabili della ricerca Istat “Noi Italia”: il gambling come attività magari legale ma «non-socially correct» non è un elemento distorsivo rispetto alla positività implicita nella nozione di consumo culturale?

di Marco Dotti

L’azzardo è un consumo culturale? Secondo l’Istat indubbiamente sì.  Come un consumo culturale infatti lo tratta il rapporto Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo , pubblicato nei giorni scorsi. Gli indicatori di spesa delle famiglie per consumi culturali rappresentano uno dei punti chiave individuati dall’Unione europea per la valutazione delle politiche per lo sviluppo delle condizioni di vita e del welfare nel lungo periodo. Stando a quanto rilevato dall’Istat, su dati del 2011, le famiglie italiane hanno destinano alla spesa per ricreazione e cultura mediamente il 7,3 per cento della spesa complessiva per consumi finali. L’Italia si attesta nella zona bassa della classifica, fra la Grecia (ultima) e la Finlandia (prima), come si vede dal grafico:

L’importanza degli indicatori non è da sottovalutare, ma non è nemmeno da sottovalutare come – proprio sul welfare nel lungo e persino nel breve periodo – possa incidere l’inclusione o meno di un indicatore in questa o quella casella e, soprattutto, la definizione usata. Proprio qui l’apparente analiticità del dato mostra una drastica incrinatura. L’Istat, che sotto la presidenza dell’ex ministro Giovannini, con il lavoro sui BES (gli indicatori di Benessere Equo Sostenibile) si era posta in condizione di uscire dalla schiavitù dei numeri senza qualità, fa entrare dalla finestra ciò che pensava di aver cacciato dalla porta. E così, la classificazione usata per gli indicatori di spesa culturale è quella basata sul cosiddetto Coicop (Classification of individual consumption by purpose), ovvero le spese per servizi ricreativi e culturali comprendono i servizi forniti da sale cinematografiche, attività radio televisive e da altre attività dello spettacolo (discoteche, sale giochi, fiere e parchi divertimento), i servizi forniti da biblioteche, archivi, musei ed altre attività culturali e sportive e  – testualmente, dal Rapporto Istat – «comprende i compensi del servizio dei giochi d’azzardo (inclusi lotto, lotterie e sale bingo)». La dizione “giochi d’azzardo” è tratta testualmente dal rapporto, quindi c’è da ritenere che i ricercatori siano consapevoli che di gambling, non di attività ludico-ricreative si sta parlando.  Una domanda da porre ai responsabili del progetto: il gambling attività magari legale ma «non-socially correct» non è un elemento distorsivo rispetto alla positività implicita nella nozione di consumo culturale? Narcotici e alcolici hanno un trattamento a sé (anche nel rapporto Istat che dedica un capitolo a “Fumo, alcol, obesità: i fattori di rischio”), mentre gli indicatori del Coicop sull'azzardo parlano genericamente di games on chance; facendoli rientrare nei consumi culturali. Un’anticaglia non più al passo coi tempi – e con le indicazioni che arrivano dalle stesse sedi internazionali.

In ogni caso, ci saremmo aspettati più coraggio e, soprattutto, proprio per la finalità dichiarata di indirizzare politiche di welfare di lungo periodo un trattamento diverso, che non accomunasse sale e giochi d’azzardo a consumi per musei, biblioteche o teatri o indici di lettura.

Con questi indicatori, evidentemente, si fa ben poca strada sul terreno del welfare, anzi, si rischia di suggerire sottotraccia politiche di incremento di quei consumi. Eppure, sono passate solo poche settimane da quando l'Economist le perdite degli italiani nel settore dell'azzardo in 17,1 miliardi complessivi (9,6 in slot machine e videolotteries). Considerarle il problema e falsa in definitiva il quadro di un Paese reale che, evidentemente, assomiglia sempre meno ai suoi numeri e alle sue fotografie. 

Qui il grafico dell’Economist

 

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