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Droni, la guerra come nei videogame

Sono una delle più silenziose e inquietanti minacce alla pace della nostra epoca. Ma in cosa consistono e come vengono usati veramente questi aerei senza pilota?

di Redazione

L'amministrazione Obama li considera l'arma migliore per combattere la “guerra globale” contro il terrorismo. Usati sia per fini militari che per la videosorveglianza dei civili, i droni mietono centinaia di vittime innocenti in Pakistan, Yemen, Afghanistan, Somalia e Gaza. Il documentario olandese “Attack of the drones” presentato al Festival sui diritti umani a Ginevra lancia l'allarme su una delle più silenziose, ma inquietanti minacce alla pace della nostra epoca.

Il nome ufficiale è General Atomics MQ-9 Reaper. Economico, preciso ed efficace nel colpire i bersagli, veloce, resistente. Tutto ciò fa del Reaper l'arma preferita di Barack Obama, che sin dal  suo primo mandato ha deciso di investire migliaia di dollari nella costruzione dei droni – aerei-robot senza pilota comandati a distanza – e  nell'addestramento dei cosiddetti “piloti da terra”, ormai più numerosi di quelli tradizionali.       

Quasi come giocare ai videogame
Basta schiacciare un bottone, muovere il joystick e un presunto terrorista salta in aria in Pakistan (e anche sullo schermo del computer). Facile come vincere a un videogame. E comodo. Perché dopo la giornata lavorativa, il giocatore-militare di turno – vestito di tutto punto come fosse a bordo di un aereo – può tornare a casa e cenare con la famiglia. A volte poi, capita che ci si debba esercitare (la precisione richiede perseveranza): ed ecco che il Reaper si mette a seguire una macchina che viaggia in autostrada. Una macchina normale, con dentro un cittadino normale, che sta presumibilmente facendo cose normali (parlare al telefono, ascoltare un cd, bere un sorso d'acqua). Alla domanda «Con quale permesso sta filmando questa macchina?» il giocatore-militare di turno rimane in silenzio, per poi esclamare «La stiamo solo seguendo con la telecamera, ovviamente senza bombe!».

No, non si tratta di colloqui pubblicati su un fumetto futuristico erede di Guerre Stellari. Siamo in New Mexico (Usa) e il “giocatore-militare di turno” altro non è che un membro della United States Air Force (l'aeronautica militare statunitense) incaricato di difendere la madre patria contro la minaccia globale del terrorismo islamico.  Le telecamere che raccontano questa storia sono quelle di un'equipe di documentaristi olandesi. Dalla loro eccellente inchiesta è nato “Attack of the Drones”, cortometraggio di  26 minuti presentato in anteprima nazionale al Festival cinematografico sui diritti umani a Ginevra (e disponibile nella sua versione originale a questo link). Dalle basi militari in New Mexico lo spettatore viaggia fino ai laboratori del Politecnico di Zurigo, dove la ricerca sui droni è supportata con entusiasmo e creatività da chi nel progresso della tecnologia vede crescita e sviluppo. Ma cosa succede quando la più raffinata robotica finisce nelle mani sbagliate?

 

Legittima difesa o assassinio? Il dibattito è aperto
Il documentario solleva una serie di questioni intorno alle quali si sta sviluppando un vivissimo e controverso dibattito internazionale.

  1. I droni, capaci di colpire il bersaglio con tanta accuratezza, permettono davvero di salvare vite umane? L'amministrazione Obama pensa di sì, tanto che il Presidente ha ufficialmente vietato la tortura firmando per la chiusura di Guantanamo, ma ha autorizzato i droni per fini bellici. Non sono però della stessa opinione le centinaia di vittime civili provocate dai bombardamenti dei  Reapers  (difficile tenerne il conto, in Pakistan il numero andrebbe dai 2 ai 4 mila). Nello Yemen, uno dei paesi più colpiti dai droni americani – non perché sia ufficialmente in guerra con gli Usa, ma perché è stato inserito nella lista nera delle patrie dei presunti terroristi –  il 24enne giornalista e attivista Ibrahi Mothana ritiene che i bombardamenti non fanno altro che aumentare l'anti-americanismo a scapito della politica di difesa degli Usa. Scrive Mothan in una lettera pubblicata sul New York Times dal titolo “How drones help Al Qaeda”: «I bombardamenti dei droni stanno aumentando l'odio degli yemeniti nei confronti degli americani, spingendoli ad arruolarsi nelle file dei militanti estremisti. Non si tratta di ideologia, ma di vendetta e disperazione».
  2. In caso di errore, di chi è la responsabilità? Di chi ha schiacciato il bottone, di chi ha dato l'ordine o di chi ha fabbricato l'arma? Insomma, il rischio in cui si incorre è quello di una “guerra virtuale” in cui non ci sono combattenti ma solo vittime. Una situazione in cui la responsabilità individuale viene azzerata in nome dell'autodifesa.   
  3. Qual è la cornice legale in cui si inseriscono gli attacchi dei droni? Ricorrere all'uso dei droni per uccidere dei presunti terroristi, senza alcuna possibilità di processo, equivale a compiere un'“esecuzione extra-giudiziaria”, vietata dal diritto internazionale in materia di diritti umani. «Dall'11 settembre gli americani hanno dichiarato guerra al terrorismo,  investendosi di un potere illimitato dal punto di vista giuridico e territoriale che giustifica il diritto di usare la forza letale in maniera indiscriminata – dichiara Stuart Case Maslen, ricercatore di diritto internazionale presso la Geneva Acamedy –  La situazione a cui stiamo assistendo è quella in cui l'assassinio ha preso il posto della diplomazia ed è presentato come atto di legittima difesa. L'impunità e la mancanza di trasparenza regnano sovrani:  con quali criteri gli Usa, Israele e la Gran Bretagna decidono di lanciare bombe su, rispettivamente, il Pakistan,  Gaza e l'Afghanistan? Come e chi compila la lista segreta dei presunti “signori della guerra” da eliminare?».
    Uno scenario inquietante, al limite dell'illegalità. Per questo, lo scorso gennaio, dai palazzi delle Nazioni Unite è partita un'inchiesta con l'obiettivo di investigare sulla “legalità e casualità” di 25 bombardamenti ad opera di droni americani e inglesi in Pakistan, Yemen, Somalia, Afghanistan e Gaza. 
  4. Infine, l'uso dei droni per la videosorveglianza dei civili non costituisce forse un'invasione alla privacy? Secondo Aljazeera, compagnie private europee e statunitensi stanno distribuendo sul mercato per poche lire droni che funzionano con gli stessi software usati per gli smartphone. “Pensate alle immagini che un paparazzo può ottenere scattando fotografie con un drone in grado di volteggiare fuori dalle finestre dei piani più alti di un grattacielo!”.
    Gli esperti ci dicono che i droni sono facili da costruire e il loro utilizzo avanza impercettibilmente ma inesorabilmente (ad oggi sarebbero una dozzina gli stati che già ne fanno uso):  dobbiamo forse aspettarci una nuova corsa agli armamenti?

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