Economia

Monti: «È l’ora dell’economia sociale di mercato»

Giorgio Fiorentini intervista il premier incaricato

di Redazione

Questa intervista è uscita sul numero dell’inserto Cantieri pubblicato con Vita del 16 settembre. Giorgio Fiorentini, professore della Bocconi, è uno dei massimi esperti di economia sociale in Italia. Mario Monti, presidente dell’ateneo milanese, è il successore di Berlusconi alla Presidenza del Consiglio.

 

Nel “Single market act” si è ribadito un forte orientamento al sociale, come elemento indispensabile per mantenere la stabilità del mercato unico europeo. Un altro punto focale è che la riconciliazione del mercato con il sociale avviene attraverso attori, non comparse: le imprese sociali, nelle varie declinazioni, che danno ulteriore stabilità al sistema. Attori il cui ruolo sta molto a cuore di Mario Monti, attuale presidente dell’università Bocconi ed ex Commissario europeo.

Nel “Single market act” si parla di economia sociale di mercato, in cosa consiste?
I Trattati di Roma e Maastricht contengono spunti di economia sociale di mercato parlando di concorrenza, disciplina del bilancio pubblico, attenzione alla ridistribuzione del reddito, lotta all’inflazione. Da ultimo, nel Trattato di Lisbona del 2010 si dice formalmente per la prima volta che l’Ue ambisce ad essere un’economia sociale di mercato altamente competitiva. Il mercato ha in questo un ruolo essenziale, l’ha avuto fin dall’inizio dell’Ue. Il mercato comune è oggi entrato abbastanza in crisi in parte proprio perché la riconciliazione con l’aspetto “sociale” è apparsa problematica. Negli ultimi dieci anni vari fattori di tensione hanno mandato in crisi sia l’aggettivo (“unico”) che il sostantivo (“mercato”). Per l’aggettivo hanno inciso tensioni derivanti dalla stanchezza dell’integrazione, con Paesi riluttanti ad aprirsi ad altri Paesi. Per il sostantivo, l’avvento della crisi finanziaria, dal 2008, ha fatto crollare la fiducia nell’economia di mercato, traballante in Europa più che altrove. Ora l’Europa deve dare slancio alla propria competitività rispetto al resto de mondo, non si può permettere di  rinunciare al mercato unico, all’economia di scala, non è auspicabile la frammentazione del mercato unico.

E il “sociale” quale ruolo dovrebbe assumere?
Entra in gioco proprio a questo punto: non solo molti, tra la popolazione e le forze politiche, vorrebbero un’Europa più sociale, ma ora riconoscere spazio al sociale diventa una priorità, come spiego nel rapporto che ho presentato a Barroso, e va visto come una riacquisizione di un più vasto consenso nell’avanzamento della costruzione del mercato stesso. Occorre quindi cambiare marcia nella costruzione del mercato: non certo frenare, ma conciliare meglio gli aspetti del mercato e quelli sociali.

Le imprese sociali oggi sono ancora considerate utili solo per combattere la povertà?
Se il mercato è unico e le risorse si muovono, i capitali si muovono ancora più facilmente, e se non c’è coordinamento fiscale tra Stati membri c’è concorrenza fiscale e il capitale se ne avvantaggia andando dove è meno tassato. Gli Stati, facendosi concorrenza, permettono la diminuzione delle tasse su capitali e l’aumento di quelle sul lavoro: per questo il mercato unico potrebbe essere visto addirittura come nemico del sociale. Ecco perché l’Ue sta cercando di ottenere un coordinamento della fiscalità. In questo contesto gioca un ruolo importante l’impresa sociale: nel tessuto economico dell’Ue va lasciato spazio sia al settore pubblico sia alle imprese a proprietà pubblica (se rispettano le regole della concorrenza), sia al privato sia all’impresa sociale, vista non come mera dicitura verbale ma come creatura vivente con possibilità di crescita. Nel mio rapporto, poi diventato base legislativa per il “Single market act”, si nota molto questa sensibilità verso il sociale, con proposte concrete. L’Act va oltre il Libro verde e le consultazioni: allo stato attuale si attende che i due poteri dell’Ue (Parlamento e Consiglio) deliberino con una fast track, una procedura veloce data l’urgenza del tema. Per esempio sul tema delle fondazioni bancarie, l’Italia si è comportata meglio della Germania, per una volta. Vent’anni fa per entrambi c’era un vasto settore bancario di proprietà pubblica nazionale o locale. L’Italia ha poi seguito, con le leggi Amato e Ciampi e l’ispirazione del ministro Andreatta, la via di una distinzione chiara tra impresa bancaria e fondazione bancaria, vedi soprattutto le Casse di risparmio: la fondazione è azionista dell’impresa, riceve profitto e lo eroga secondo la sua visione. In Germania il mondo politico non è stato abbastanza lucido per fare la distinzione, c’è ancora un sistema ibrido, nonostante le ripetute osservazioni della Commissione europea: qui il fondo per il sociale viene erogato nelle pieghe dell’azienda bancaria, con poca trasparenza e una commistione tra politica e finanza che provoca problemi.

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